CADMO
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Al tempo degli Immortali Oceáno, gran signore di Luna, abbellì le sue terre con tanta acqua dolce e fresca e nelle lande deserte venne gente da ogni dove del grande lago fra le terre attirata da tutta quella buona acqua. Ne prendevano a piacere, essendo proibita solo la fonte che sprizzava a Spedia. Nella fonte dimorava la figlia prediletta di Oceáno che vietò si toccasse quell’acqua pura e cristallina. Gli abitanti mai infransero il divieto, ma la ammiravano mentre sgorgava dal sasso con voce ammaliante: sss …pr e per il suono che produceva la chiamarono [[SPROGORA|Sprogora]]. Non la bevevano perché il gran dio aveva deciso che si potesse raccogliere quell’acqua solo con orci cuciti dai piedi dei figli dei sassi con i fili del mare: oscuro arcano mai svelato. La fonte restò vergine e se qualcuno, blasfemo incurante del divieto o assetato ignaro, tentava di coglierne stilla nella coppa delle mani, le ritraeva asciutte. | Al tempo degli Immortali Oceáno, gran signore di Luna, abbellì le sue terre con tanta acqua dolce e fresca e nelle lande deserte venne gente da ogni dove del grande lago fra le terre attirata da tutta quella buona acqua. Ne prendevano a piacere, essendo proibita solo la fonte che sprizzava a Spedia. Nella fonte dimorava la figlia prediletta di Oceáno che vietò si toccasse quell’acqua pura e cristallina. Gli abitanti mai infransero il divieto, ma la ammiravano mentre sgorgava dal sasso con voce ammaliante: sss …pr e per il suono che produceva la chiamarono [[SPROGORA|Sprogora]]. Non la bevevano perché il gran dio aveva deciso che si potesse raccogliere quell’acqua solo con orci cuciti dai piedi dei figli dei sassi con i fili del mare: oscuro arcano mai svelato. La fonte restò vergine e se qualcuno, blasfemo incurante del divieto o assetato ignaro, tentava di coglierne stilla nella coppa delle mani, le ritraeva asciutte. |
Versione delle 05:50, 16 ago 2011
Per i lavori dell’Arsenale sparì un singolare fenomeno naturale caratteristico del Golfo fino al 1890 circa. In mezzo al mare, davanti a Marola e Cadimare, scaturiva come per miracolo una polla d’acqua dolce cui tante imbarcazioni attinsero. Nessuno ne seppe mai l’origine che qualcuno pensò fosse la Sprugola. Fatto noto, quasi magico, ma non ne nacque mai il mito che é l’anticamera della Storia. Avrebbe potuto essere così. Al tempo degli Immortali Oceáno, gran signore di Luna, abbellì le sue terre con tanta acqua dolce e fresca e nelle lande deserte venne gente da ogni dove del grande lago fra le terre attirata da tutta quella buona acqua. Ne prendevano a piacere, essendo proibita solo la fonte che sprizzava a Spedia. Nella fonte dimorava la figlia prediletta di Oceáno che vietò si toccasse quell’acqua pura e cristallina. Gli abitanti mai infransero il divieto, ma la ammiravano mentre sgorgava dal sasso con voce ammaliante: sss …pr e per il suono che produceva la chiamarono Sprogora. Non la bevevano perché il gran dio aveva deciso che si potesse raccogliere quell’acqua solo con orci cuciti dai piedi dei figli dei sassi con i fili del mare: oscuro arcano mai svelato. La fonte restò vergine e se qualcuno, blasfemo incurante del divieto o assetato ignaro, tentava di coglierne stilla nella coppa delle mani, le ritraeva asciutte. Zampillando Sprogora aveva formato uno specchio d’acqua piccolo e bello coronato da salici e erbe palustri cui cigni e folaghe erano dame d’onore di bella principessa. Un giorno venne dalle lontane Cicladi un giovane corvino per capello e occhio. Vagabondo nel grande lago fra le terre, gli piacque subito il gran golfo di Luna. Fermatosi presso Spedia in un’ansa posta al tramonto, con la barca girava per vedere cosa gli si offriva oltre al mare pescoso. Vide boschi ricchi, prati da arare, terrazze erte su cui come serpe si attorcigliava il legno nodoso della vite. Si assopì poi stanco presso il laghetto di Spedia. Dal fondo del regno Sprogora scorse le labbra riarse dal sole e dal sale e volle baciarle a costo di infrangere il volere paterno. Una goccia luminosa zampillò alta, ricadde su una foglia di ninfea e su un ramo di salice per rimbalzare sullo stelo di un narciso e cadere sulle labbra del giovane dal capello corvino che però non bevve. Assonnato o per volere del fato, non assaporò il prezioso succo, ma schiuse le labbra per ricevere la goccia che cadeva dall’alto. Fu bacio che ruppe la magia che proibiva ai mortali di vedere le divinità delle acque. Sprogora dalla stilla gli si manifestò nel suo fulgore. “Sono Sprogora, figlia del gran dio Oceáno, signora dell’acqua. Chi sei?” Senza risposta il giovane tese una mano e la volle accanto a sé. La notte, quando la luna fu manto a coprirli, Sprogora stretta al capello corvino sussurrò quanto non doveva svelare. Al risveglio il giovane trovò come segno della bella dea, solo il lenzuolo d’erba sprimacciato dalle membra armoniose. Oceáno subito aveva condannato la figlia benché prediletta, a mai più rivedere il mortale cui aveva svelato il gran mistero. Sprogora pianse e le lacrime aumentavano il suo laghetto mentre il giovane, ricordando i suoi sussurri, tornava nella casa nella costa al tramonto dirigendosi alla spiaggia. Con un legno scalzò i sassi per farne uscire i tanti figli dai molti piedi nascosti sotto. Li prese e ne fissò le estremità alla vela della barca come si faceva nelle sue isole natie. Quando sentì che la pelle dei polpi era ormai indurita dal sole, il giovane tirò giù dalla vela i figli dei sassi disponendoli sulla sabbia. Bucò la costola di una seppia e per quella cruna fece passare un refe verde ottenuto dai tanti fili delle alghe colti in mare e tessuti. In breve ebbe un vaso capace e duro da cui neppure una stilla di liquido sarebbe uscita. L’otre in mano, diresse con la barca verso il laghetto di Spedia dove colmò lo strano vaso appoggiandone la bocca contro corrente e chiamando l’amata. A sentirlo Sprogora riempì il sacco con le lacrime per non poter più stare fra le sua braccia. Il giovane tornò verso casa ma non sbarcò a terra. Restò in mare davanti alla casetta fino a che non arrivò una nave nel golfo della Luna dalla parte aperta del grande lago fra le terre superata l’isola delle caverne. Il giovane offrì alla nave acqua dolce in cambio di oro. Era il dono di Sprogora: dargli ricchezza facendogli attingere acqua alla sua fonte. Lo incontrava così e versava lacrime che empivano l’otre che il giovane dal capello corvino vendeva ai tanti legni che passavano. La gente chiamò il giovane Kàdos, che nelle Cicladi vuol dire anfora, e per tutti il tratto d’acqua salsa dove stava la barca di Kados che vendeva il dolce liquido fra le onde divenne Kadumar, il mare dell’uomo dell’anfora. Kados continuava a andare dall’amata che al vederlo piangeva sempre più. Le lacrime commossero Luna. Intercesse presso Oceáno che alfine permise che i due si ritrovassero. “Quando, gran dio?” chiese Luna. “Non subito. Ancora va pagato il fio della gran colpa.” “All’epoca dei mortali?” osò timorosa Luna sapendo che anche agli eterni é imposto il crepuscolo. “No, per riunirsi dovranno aspettare l’epoca delle macchine.” “Così tanto!” “Grande fu il peccato. E quando di nuovo respireranno insieme, lo faranno lontano dai viventi ché ne perdano la memoria e dimentichino che si può profanare il volere di Oceáno”. Ma Sprogora fu felice di quelle parole. Non importava la lunga attesa se avrebbe riavuto il suo uomo dalla chioma corvina. Non le interessava che di loro nessuno più avrebbe saputo. All’amore non serve la fama, né è essenziale il contatto: basta la speranza di ritrovarsi.
Autore: Alberto Scaramuccia