I BARBARI ALLA SPEZIA
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- 405 – Gli Ostrogoti di re Radagaiso invadono la Liguria orientale (cioè buona parte della Padania) ma vengono sconfitti a Fiesole e ricacciati in Ungheria dal generale imperiale romano Flavio Stilicone.
- 410 – Il 24 agosto Alarico, re visigoto, saccheggia Roma, peraltro non più capitale dell’Impero.
- 421 – I Visigoti istituiscono la Provincia Maritima, di cui fa parte Luni.
- 440 – L’Italia è devastata dai Vandali di Genserico.
- 452 – Gli Unni di Attila spargono il terrore nella Liguria orientale.
- 476 – Odoacre, generale erulo dell’esercito romano, depone l’Imperatore Romolo Augustolo e prende il potere proclamandosi re d’Italia: è la fine dell’Impero Romano d’Occidente.
- 489 – Con il tacito assenso di Zenone, Imperatore d’Oriente, gli Ostrogoti di Teodorico invadono l’Italia.
- 493 – Teodorico spodesta Odoacre e dà inizio al Regno Goto che durerà 60 anni.
- 530 – Teodorico entra in contrasto con il Papa e con l’Imperatore d’Oriente.
- 535 – Il generale bizantino Belisario sbarca in Italia: cominciano le guerre greco–gotiche che trasformeranno la penisola in uno sterminato cimitero.
- 541 – Rientrato Belisario in patria, il re goto Totila riconquista l’Italia.
- 553 – Il generale bizantino Narsete sconfigge i Goti, occupa Luni e vi trasferisce da Genova le insegne di capitale della Provincia Maritima. Il golfo (Luna, ribattezzata Selene) diventa una base navale greca.
- 568 – Guidati da Alboino i Longobardi invadono l’Italia. Ora la penisola è divisa in due, parte in mano ai Longobardi, parte (Liguria, Luni e Pisa comprese) in mano ai Bizantini.
- 580 – Le fortezze greche di Luni e Filattiera sono i punti avanzati del limes tra Bizantini e Longobardi sul confine tosco-ligure.
- 594 – Il re longobardo Agilulfo valica col suo esercito la Cisa, e attraversate Val di Magra e Lunigiana discende la valle del Serchio per andare a prendere Roma.
- 643 – Rotari, re longobardo, sfondato il fronte in Emilia, passa la Cisa, conquista e distrugge Luni, devasta il golfo e Portovenere, ed infine espugna le fortezze greche del Bracco. La Liguria ora è sua.
- 749 – I Longobardi occupano Ravenna e l’Esarcato ponendo fine dopo due secoli alla presenza bizantina in Italia.
- 773 – Chiamato da papa Adriano, Carlo Magno, re dei Franchi, entra in Italia, sconfigge i Longobardi e occupa la Liguria e lo Spezzino.
- 900 – Berengario I conferma i privilegi di immunità al vescovo di Luni Odelberto.
- 963 – In un diploma dell’Imperatore Ottone I si parla di ”castrum de Sarzano”.
- 1133 – Brugnato diventa sede vescovile.
- 1071 – In un atto notarile compare il nome Spexia.
In questi seicento e passa anni assistiamo a un lento ma inesorabile declino della città di Luni la cui agonia coincide pressappoco con l’alba di Sarzana, ma ritroviamo anche il golfo, rimasto a lungo immerso nel buio mentre nelle contrade italiane scorrazzavano i Visigoti di Alarico e gli Unni di Attila, i Vandali di Genserico, i Goti, gli Eruli, i Burgundi, gli Alemanni. Sebbene non ci siano documenti certi si può ragionevolmente ritenere che fin dall’inizio delle invasioni barbariche la nostra terra avesse attirato l’attenzione dei condottieri venuti dalla Pannonia. Probabilmente passò per la Val di Vara, proveniente dalla pianura Padana e diretta in Toscana, una selvaggia armata composta da trecentomila Unni, Goti e Sarmati, alla cui testa c’era l’ostrogoto Radagaiso capo dei Greutungi, incalzata subito dopo dal valoroso generale vandalo Flavio Stilicone, comandante supremo dell’esercito imperiale romano, lanciato con un po’ di truppa al suo inseguimento. Il passaggio dei Goti, di Radagaiso o di altri, ha lasciato indelebili tracce nella toponomastica ligure-emiliana. Troviamo per esempio il Gotra, un tempo Gothra o Gotula, il “torrente dei Goti” che dalla Foce dei Tre Confini, dove s’incontrano Toscana, Emilia e Liguria, scende al Taro; Gotra, minuscolo nucleo abitato sulle rive dell’omonimo torrente; il Monte Gottero, o Mons Gotulus, o Mons Gothorum, ovverosia Monte dei Goti; e di riflesso il torrente Gottero affluente del Vara. Alcuni studiosi pensano invece che il Gottero (monte e torrente) e il Gotra abbiano tratto il nome dal fatto che su quell’altura si rifugiarono, stabilendovi poi la propria dimora e lì vivendo per molto tempo in pace, piccoli gruppi di Goti sconfitti dal greco Narsete e scampati alla caccia che gli davano i soldati bizantini. «Nella toponomastica della zona ‒ leggiamo in Luna ‒ c’è un’altra traccia che lascia intuire antichi scenari bellici. Lungo il sentiero che dal Taro risale la valle del Gotra e che valica il Gottero scendendo su Sesta Godano, su un altura che supera i mille metri dalla quale nasce il rio Chiusola, troviamo Foce delle guardie. Quello era un crocevia importante, distaccandosi da lì il sentiero per Chiusola e quindi per la valle del Gottero. Da quali soldati prese nome la Foce? Lasciata libera di galoppare la fantasia potrebbe raccontarci di sentinelle gote lasciate a vigilare su un nodo strategico della viabilità altomedievale; oppure, più verosimilmente, di un avamposto del sistema difensivo bizantino collocato proprio nelle località di maggior passo, tra le piazzeforti di Luni e Filattiera, e la linea fortificata tesa fra il Cento Croci e il Bracco». In ogni caso il passaggio delle orde barbare lasciava solo devastazioni, lutti e dolore, tanto che chi doveva viaggiare preferiva prendere la via del mare. «Si sceglie il mare – spiegava il poeta Rutilio – perché le vie di terra, fradice in piano per i fiumi, sui monti sono aspre di roccia. Dopo che i campi di Tuscia, dopo che la via Aurelia, subite a ferro e a fuoco le orde dei Goti non domano più le selve con le locande, né i fiumi con i ponti, è meglio affidare le vele al mare, sebbene incerto». Ciò significa che anche la via litoranea fra Pisa e Luni era di nuovo impraticabile, in definitiva non esisteva più, come al tempo delle guerre apuane. Non meno pericolosa era la vita dei naviganti. Fin dal 440 la navigazione nel Mediterraneo era resa impossibile dalle scorrerie dei Vandali d’Africa guidati da Genserico, e chi viveva sulle marine era esposto ogni dì al rischio degli assalti di quei predoni; una situazione che aveva spinto Genova, capitale della Provincia Maritima bizantina, ad accordarsi con la Tuscia Annonaria (sorta nel 458 con Arezzo, Firenze, Lucca, Pisa e Luni) per creare una frontiera unica sì da rafforzare le difese costiere. A questo scopo la popolazione civile venne abilitata all’uso delle armi di modo che potesse affiancare i soldati nella difesa degli abitati, provvedimento che sicuramente riguardò anche la gente di Erycis, di Portovenere e dei minuscoli villaggi del golfo e delle riviere. Tra questi c’erano Luna, erede dell’antica base navale romana, che si trovava nella zona della Chiastra, nei pressi di San Vito di Marola, e Boron, la stazione itineraria citata dalla Tabula Peutingeriana che sorgeva dov’è oggi la Pieve di San Venerio. Durante la seconda guerra gotica ciò che restava di Luna – da non confondersi, ripeto, con Luni – fu usato dalla Marina gota per ancorare le navi d’appoggio alle truppe impegnate nel controllo della Corsica e della Sardegna, e infine della navigazione nell’alto Tirreno insidiata dai dromoni bizantini. Sappiamo dai cronisti di allora quel che accadeva nelle nostre contrade durante il conflitto: soldati che nei centri urbani o nelle campagne si abbandonavano a ogni eccesso fra donne di malaffare, bagordi, saccheggi e violenze, con gli italiani costretti a subire tra l’incudine gota e il maglio bizantino. Perché essi, si lamentava Procopio, «mentre erano privati delle loro terre dai nemici, dai soldati dell’imperatore venivano depredati dei loro beni personali, e inoltre accadeva loro di patire anche violenze fisiche e addirittura di essere uccisi senza alcun motivo, oltre a dover soffrire la mancanza di viveri». Giovanni Villani ci informa che nemmeno Luni e Pontremoli sfuggirono al leggendario re goto Badùila detto Totila, ed è questo che ci induce a pensare ch’egli nel 542 o nel 543 abbia calpestato anche le rive del golfo. La conquista della Sardegna e della Corsica, avvenuta senza colpo ferire, aveva avuto come base di partenza la Sicilia, ma è plausibile, appunto, che le navi gote avessero poi stazionato a lungo nel golfo della Spezia, magari per appoggiare le incursioni su Luni, Pontremoli, Pisa e Lucca dove «molti santi monaci e religiosi furono distrutti e martirizzati». È comunque alla fine delle guerre gotiche (535-539 la prima; 551-553 la seconda) che il golfo riemerge dall’ombra e torna alla ribalta della storia. Il conflitto fra i Goti dei re Teodato o Vitige o Totila o Teia e i Bizantini dei generali Belisario prima e di Narsete poi si concluse con la disfatta dei barbari venuti dalla Pannonia il che lasciò le italiche contrade in mano all’Impero romano d’Oriente. E mentre i pochi Goti superstiti si ritiravano sulle montagne – come il Gottero – creando minuscole comunità, i generali di Bisanzio consolidavano il possesso della penisola. Una penisola di disperati, dove a centinaia di migliaia i già sparuti abitanti morivano di scorbuto, di peste, di colera, di scabbia, di lebbra, di ergotismo o di dissenteria. E di fame. A raccontarci come anche dalle nostre parti, nelle nostre valli, la povera gente moriva di inedia fu soprattutto lo storico bizantino Procopio di Cesarea, testimone oculare di quel tempo atroce: «Tutti divenivano emaciati e pallidi, e la carne loro mancando d’alimento consumava se stessa, e la bile prendendo predominio sulle forze del corpo dava a questo un colore giallastro. Col progredire del male ogni umore veniva meno in loro, la cute asciutta prendeva aspetto di cuoio e pareva aderire alle ossa, ed il colore fosco cambiatosi in nero li faceva somigliare a torce abbrustolite. Nel viso erano come stupefatti e nello sguardo come orribilmente stralunati. Quali di essi morivano per inedia, quali per eccesso di cibo, poiché essendo in loro spento tutto il calor naturale delle interiora, se mai qualcuno li nutrisse a sazietà, e non poco per volta, come si fa dei bambini appena nati, non potendo essi già più digerire il cibo tanto più presto venivano a morte. Taluni furono che sotto la violenza della fame mangiaronsi l’un l’altro. Ben molti travagliati dal bisogno della fame, se mai in qualche erba si incontrassero avidamente vi si gittavan sopra ed appuntate le ginocchia cercavan di estrarla dalla terra, ma non riuscendo, poiché esausta era ogni loro forza, cadean morti su quell'erba e sulle proprie mani. Né v'era alcuno che li seppellisse, poiché a dar sepoltura niun pensava; non eran però toccati da alcun uccello dei molti che sogliono pascersi di cadaveri, non essendovi nulla per questi». Per tentare di sopravvivere «... già si mangiavano gli escrementi l’uno dell’altro», mentre molti «tormentati dalla fame si suicidavano, non trovando più né cani né topi né carogne di animali di cui cibarsi». E la povera gente, diceva papa Gregorio Magno, era costretta a vendere i figli per pagare le tasse. Intanto che Narsete annientava i Goti sulla terraferma, a spalancare ai Bizantini le rotte del Tirreno e a consentirgli d’impadronirsi poi del golfo della Spezia, era stata una grande battaglia navale: nel 551, davanti a Sena Gallica (Senigallia), una flotta bizantina agli ordini dei generali Valeriano e Giovanni, forte di cinquanta dromoni, era piombata sui legni con i quali gli ammiragli di Totila assediavano Ancona e li aveva distrutti. Delle 47 navi di cui disponeva, il re barbaro aveva potuto salvarne solo undici. E due anni dopo, presa la città di Luni senza colpo ferire, il generale bizantino poteva attestarsi nel golfo della Spezia (Luna) ribattezzandolo con un nome antico: Selene. «Sebbene in Italia si vivessero sì tristi momenti – scrive Gino Ragnetti in Luna – il golfo era con buone probabilità un’isola tutto sommato felice: la sua marginalità, una viabilità precaria se non inesistente, l’assenza di una città importante da saccheggiare e più tardi la presenza militare greca, dovrebbero avere concorso a tenere alla larga le schiere degli invasori, ad eccezione forse di quelle di Radagaiso e di Totila, almeno fino alla comparsa dei Longobardi sulla scena. Lo stesso Emanuele Repetti, pensando a Luni, lamentava che “nulla sappiamo delle sue vicende sotto la dominazione gotica, come tampoco nelle tre prime decadi del regno de’ Longobardi in Italia”». In apparenza dunque, ma solo in apparenza, la Storia non frequentava questi lidi. In apparenza, certo, perché malgrado siano particolarmente scarse le informazioni e la documentazione archeologica su questo periodo della vita italiana – in verità sono pochissime le necropoli trovate di quella gente; solo qualche tomba isolata, qua e là – resta difficile credere che i Goti una volta alzatevi le loro insegne si siano del tutto disinteressati di Luni e del Lunense, una città e un territorio senz’altro importanti sotto il profilo militare. Non a caso Procopio narra che «nel 552 quando la guerra gotica era ormai vicina alla sua conclusione, alcune città della Tuscia (Firenze, Centocelle, Volterra, LUNI e Pisa) passavano a Narsete, mentre i Goti di Lucca si apprestavano, invece, a una fierissima resistenza». Reduci dalla sconfitta furono numerosi i Goti che presero dimora con le loro famiglie in castelli delle zone circonvicine. Altri, racconta la leggenda, dopo essersi rifiutati di deporre le armi fuggirono sul Gottero. Una presenza dunque più radicata di quanto non sembri, sospettava Pier Maria Conti secondo il quale, sebbene del loro soggiorno in quel di Luni dopo il 554 non si sia trovata più alcuna traccia né notizie, dirette o indirette, «ciò non significa che la presenza gota cessasse assolutamente nella città». È a questo periodo (553) che si fa risalire la fondazione del borgo di Nicola di Ortonovo con un castrum, denominato Mikauria, eretto dai Bizantini; e non è escluso che lì abbiano cercato asilo anche alcuni Goti dopo la resa. Eredità del periodo romano erano nel golfo il villaggio e l’approdo di Luna, Boron, con annesso nucleo abitato, Erycis e Veneris Portus, e la villa-fattoria del Varignano. E intanto un ragazzo portovenerese di nome Venerio cominciava a frequentare il monastero dei benedettini alla Palmaria, poi ne fondava uno tutto suo al Tino, compiva miracoli, sbalordiva le genti e metteva in fuga terribili mostri che facevano stragi di marinai. Nel 566, da poco conclusosi il conflitto greco-gotico una terribile pandemia di peste seminò la morte in Italia, e in particolare in Liguria. Ovunque erano lutti e pianti. Terrorizzati dal dilagare del morbo gli abitanti delle città e dei villaggi scappavano abbandonando campagne, case, tenute e castelli, inseguendo la chimera di una salvezza da trovare chissà dove. «Fuggivano i figli – raccontava Paolo Diacono, monaco e storico longobardo – lasciando insepolti i cadaveri dei genitori; i genitori, dimenticati l’amore e la pietà, abbandonavano i figli in preda alla febbre. Non c’era traccia di uomini per le strade, non vi si vedeva nessuno che colpisse, eppure i cadaveri dei morti giacevano a perdita d’occhio. I pascoli si erano trasformati in luoghi di sepoltura per gli uomini e le case degli uomini in rifugi per le bestie». Scemata l’epidemia, ecco un’altra peste che si profilò all’orizzonte: erano i Langbärten di Alboino, i Longobardi, gente primitiva, crudele, mossa solo da brama di conquista, di saccheggio e di bottino, non per nulla definita da Velleio Patercolo «la più feroce delle genti germaniche», un intero popolo che il primo aprile del 568, giorno di Pasquetta, dalla Pannonia si era messo in marcia verso l’Italia portandosi dietro anche più di ventimila Sassoni, con donne e bambini, e con loro Svevi, Sarmati, Bulgari, Ostrogoti del Norico, Turingi, Avari, Gepidi. Secondo taluni studiosi si trattava di almeno 400.000 armati, seguiti da vecchi, donne e bambini, trentamila bovini, diecimila ovini, diecimila maiali, e i carri con le masserizie. Alboino scese in Italia, occupò la pianura ligure (Valle Padana) entrando il 3 settembre a Milano, e tentò, senza riuscirvi, di valicare l’Appennino e conquistare la Liguria litoranea. Questa striscia di terra era però saldamente in mano ai Bizantini, e il duce longobardo fu costretto a desistere accontentandosi di consolidare il possesso della piana solcata dal Po, della Tuscia, e dei Ducati di Spoleto e Benevento (Marche, Umbria, Abruzzo e Beneventano). E a Genova, protetto dalle armi dell’Impero, il 5 settembre del 569 si rifugiò l’esule Metropolita Onorato seguito dal clero maggiore e dall'intera nobiltà meneghina, tutti scappati da Milano poche ore prima che vi entrassero i nuovi padroni. Longobardi e Bizantini – che oltre alla Liguria marittima conservavano l’Esarcato di Ravenna, il Ducato romano, il Ducato di Napoli, parte della Puglia, parte della Calabria, e Sicilia, Sardegna e Corsica – si spartirono insomma l’Italia. E per quanto riguarda almeno la “nostra” Liguria la dominazione greca garantì una certa prosperità. Testimonianza di questo periodo sono le torri circolari e gli schemi ecclesiali biabsidati. Nel 594 i venti di guerra tornarono a soffiare da queste parti. Fu quando Re Agilulfo della stirpe degli Anawas, Duca di Torino, attaccò e occupò una dopo l’altra Parma, Piacenza, Brescello, Cremona, Mantova e Reggio, conquistò le valli del Taro e del Gotra, di là dal Gottero, e quindi scacciati i bizantini dall’Emilia puntò verso sud per avventarsi contro Roma (lo fermerà papa Gregorio Magno). Il passaggio del re longobardo seminò il terrore fra le genti poste sul suo cammino: proveniente da Parma Agilulfo risalì la valle del Taro, entrò in Val di Magra dalla Cisa, rimontò l’Aulella passando nella Garfagnana fino a Lucca. Con questa manovra i Longobardi tranciarono in due le terre bizantine procurandosi un corridoio che avrebbe garantito le comunicazioni tra la Padania, la Tuscia e i ducati di Spoleto e Benevento. La città di Luni sembrava essere ancora un’isola lambita dai marosi della tempesta che stava scuotendo tutta l’Italia. Certo, non era indifferente a quanto accadeva nella regione. Il vescovo, per esempio, che era il custode del tesoro delle chiese lunensi, alle prime turbolenze barbare aveva mandato a rastrellare e a portare al sicuro entro le robuste mura della città tutti gli oggetti preziosi sparsi in cappellette e pievi delle terre a lui sottoposte sottraendoli alla bramosia degli infedeli. In effetti tutt’attorno c’era parecchio movimento, con i generali greci che, incapaci di reggere alla pressione longobarda sulla loro prima linea difensiva imperniata sui caposaldi di Luni e Surianum (Soriano di Filattiera), erano costretti ad arretrare attestandosi su una linea fortificata montana tesa tra il passo di Cento Croci, Varese Ligure, Maissana e il Bracco. Ricordiamo che ad avvalorare l’ipotesi di una intensa frequentazione greca del territorio varesino ci sono alcuni toponimi: il Monte dei Greci, antico nome del Cento Croci, la località Baselica, che potrebbe indicare una selva imperiale, o più probabilmente una strada reale, e il quartiere Grecino (o Grexino) con il suo bellissimo ponte di pietra. L’antica Liguria era dunque divisa in due: al nord la lingua germanica, il culto ariano e il diritto consuetudinario; e al sud il cristianesimo, le lingue latina e greca, e il diritto romano. Di quel limes sopravvivono in terra spezzina alcuni toponimi quali Bardellone, Bordineto, Bardine, Bargone, oppure Gaggio, Gaggiola, Gaggiolo, Gazzolo. Un altro caposaldo bizantino doveva essere il castello di Buto alle falde dei monti Castello e Belvedere: con i Longobardi signori incontrastati delle valli del Taro e del Ghotra, poco di là dalla vetta del Gottero, era verosimilmente la sentinella posta a guardia del passo di Pian di Lago, una delle vie che conducevano in alta Val di Vara. Dal canto suo Luni viveva ormai in una condizione di totale isolamento, tagliata fuori com’era dalle grandi vie di comunicazione, soprattutto dopo il ripiegamento del grosso dell’esercito bizantino sulla linea del Bracco. Tant’è vero che nel 599 il magister militum Aldio, un mercenario germanico che si era distinto anche nella difesa di Roma, aveva disposto il trasferimento del comando militare bizantino da Luni alla fortezza di Surianum, presidio principale per il controllo della viabilità da e per l’oltre Appennino. Un altro presidio doveva essere Filetto, toponimo militare bizantino che significava posto di guardia. Vitale a quel punto per la stessa sopravvivenza dei dominî bizantini in Italia era intanto diventato il golfo della Spezia: la romana Luna, la greca Selene, dopo tanti decenni tornava dunque ad assumere un ruolo militare di grande rilievo. Essendo la Tuscia settentrionale (Lunigiana e Garfagnana) isolata dai grandi centri della penisola ancora in mano ai Bizantini, solo con il controllo delle comunicazioni marittime era infatti possibile fare arrivare regolari rifornimenti alle truppe e di assicurare loro un adeguato sostegno tattico, e il golfo era l’ideale per fornire il necessario supporto alla flotta. Una fortezza greca, per esempio, era Pisa, un’enclave in territorio longobardo che poteva sopravvivere solo grazie al collegamento via mare con Luni, traffico protetto dai legni stanziati nella rada della Spezia. In quell’epoca la base militare di Luna viveva pertanto una nuova vita col nome di Selene sotto le insegne di Costantinopoli, ma accanto già crescevano Marola e un altro centro abitato nella zona poi chiamata San Vito, suoi naturali eredi. Rifacendosi alla situazione del golfo negli anni del conflitto bizantino-longobardo il professor Romolo Formentini diceva: «Si trattava, com’è facile immaginare, di una vera e propria zona di guerra e numerosi presidi bizantini erano disseminati nei vari castelli che, con un sistema che oggi chiameremmo di difesa in profondità, costituivano il nuovo limes. È naturale che in relazione con i castelli fossero le stazioni navali della flotta imperiale riorganizzate da Giustiniano. Sappiamo infatti che la vecchia stazione di Portus Veneris era diventata una forte base navale alla quale ormeggiava spesso la flotta stazionante in Sardegna, e abbiamo pure notizia della fondazione nella riviera di ponente di città che ebbero questa stessa funzione (Portus Maurici e Varigotti). È logico quindi supporre che una stazione navale bizantina, sia pure di limitata importanza, sorgesse appunto anche a Marola». In effetti, si sa che con l’affacciarsi dei Longobardi sulla scena della Liguria orientale (l’attuale Lombardia) con relativa conquista di Milano, i Bizantini capirono che uno dei loro elementi di forza per contrastare l’invasione e impedire che anche i litorali cadessero in mano barbara era il controllo del mare, e quindi la flotta; per cui si affrettarono a recuperare antichi scali romani o addirittura degli antichi liguri proteggendoli con adeguate fortificazioni erette tutt’attorno. Furono perciò militarizzati, oltre a Porto Maurizio e Varigotti, anche i porti di Ventimiglia (Albintimilium), Toirano (Varatelia), Albenga (Albingaunum), Vado Ligure (Vada Sabatia), Savona (Savo), Genova (Genua), Portofino (Portus Delphini), Sestri Levante (Segesta Tigulliorum), Moneglia (ad Monilia), Framura (Antium), Portovenere (Portus Veneris), Lerici (Eryx) e Luna. Resta il fatto – chiariva Romolo Formentini – che la presenza delle arche funerarie prova con quasi assoluta certezza l’esistenza a San Vito di un centro abitato durante l’occupazione bizantina, ciò che sarebbe sufficiente a far supporre una precedente utilizzazione dello scalo da parte dei Romani, anche se non ne esistesse la prova sicura data dai ritrovamenti avvenuti durante i lavori di costruzione dei bacini». La presenza di un insediamento bizantino nella zona della Chiastra è confermata dalle notizie certe sulla chiesa che era stata lì eretta agli albori della cristianità e dedicata a San Vito, un santo venerato proprio nelle basiliche di Bisanzio. «Da quanto raccontano i Sinassari greci e il Sacramentario Gelasiano – si legge in Luna – Vito, santo bambino nato a Mazara del Vallo nel 286, subì il martirio nei pressi del fiume Sele in Lucania, al tempo della più brutale persecuzione dei cristiani voluta dall’imperatore Diocleziano, il 5 giugno 303. Fin da piccolo Vito aveva avuto seri problemi a causa della fede incrollabile che già aveva manifestato a soli dodici anni. Finì in prigione, speditovi addirittura dal padre che non poteva tollerare di avere un figlio cristiano. E sperando che la detenzione facesse rinsavire il bambino, prese a spiarlo dal buco della serratura. Fu così che scorse Vito in compagnia di sette angeli. La visione lo abbagliò al punto da fargli perdere la vista, bene che più tardi poté riacquistare solo grazie all’intercessione del figlio. Ma per il ragazzino la vita continuava ad essere difficile anche fra le mura di casa, per cui un giorno fuggì, seguito come due ombre dal suo pedagogo Costanzo e dalla nutrice Crescenza, vagando per sette anni per la Sicilia. Vito si spostò infine a Roma e qui ebbe modo di conoscere il figlio dell’imperatore trovandolo affetto da una grave malattia: dicevano ch’era posseduto dal demonio; e lui lo guarì con un prodigio. Ciò non valse tuttavia a sottrarlo alla feroce persecuzione di Diocleziano, che lo fece catturare e gettare nelle segrete dove fu sottoposto a spaventosi supplizi. Nonostante la giovanissima età – a soli dodici anni già aveva manifestato una fede incrollabile – fu immerso in un calderone colmo di olio e pece bollente, poi visto che non moriva fu gettato in pasto ai leoni, che però al suo cospetto s’ammansirono, leccandogli i piedi in una tenera carezza; quindi tentarono di farlo sbranare da un cane idrofobo, ma anche questa fiera s’acquietò. I suoi carnefici, disperati, lo appesero allora a una forca assieme ai suoi precettori Modesto e Crescenza, ma neppure questo supplizio né quello della catasta in fiamme cui si ricorse poscia ebbe effetto. Solo la decapitazione con una spada poté porre termine alle sofferenze e alla vita terrena del santo». Romolo Formentini faceva notare come le pur scarse notizie a noi pervenute sul culto prestatogli fossero sufficienti a giustificare pienamente l’ipotesi che si trattasse di un marinaio della flotta imperiale bizantina della Sardegna, in quanto il suo nome compariva nei libri liturgici ambrosiani precisamente del VII secolo, mentre i libri liturgici romani lo notavano solo nel XII secolo, e la prima notizia di un edificio ecclesiastico a lui dedicato la trovavamo nel 591 riferita a un monastero di suore in Sardegna. «Non è da trascurare a tal proposito – aggiungeva il professore – la particolare diffusione del suo culto in Liguria. È probabile quindi, e del resto tale ipotesi è già stata fatta per i sarcofagi trovati nel sagrato nella chiesa di San Paragorio a Noli, che una delle arche funerarie di Marola sia stata la tomba stessa del santo da cui la chiesa ebbe poi il suo titolo». In ogni caso, il culto dell’indomito fanciullo dovrebbe essere stato portato nel golfo, dove in breve attecchì, dai marinai di una qualche nave bizantina, perché era laggiù, sulle rive del Bosforo, appunto nelle basiliche dell’antica Bisanzio, che aveva avuto origine la devozione nei suoi riguardi. Sicché presto la comunità locale – si può presumere che ciò sia avvenuto negli anni in cui viveva San Venerio, fra il 560 e il 630, quando la presenza della flotta imperiale garantiva una certa tranquillità agli abitanti – volle erigere nella zona del porto una piccola chiesa in suo onore; e non dovremmo essere lontani dal vero se immaginiamo che essa fu fabbricata col contributo della stessa guarnigione greca acquartierata a Luna/Selene. Dicevamo che l’esistenza e la successiva rovina di quel tempietto è attestata da documenti inoppugnabili. Si tratta del Codice Pelavicino e delle Carte del monastero di San Venerio del Tino, dai quali veniamo a sapere che il 19 giugno del 1235 il vescovo di Luni Guglielmo consentì ai consoli di Marola e di Matrono (forse l’odierna località dal Mattone, sulle alture di Cadimare) di riedificare (“... super rehedificatione...”) la chiesa intitolata alla Vergine Gloriosa e a San Vito «de Marola del P.dore in loco dicto Marola del P.dore». Mentre resta per noi un enigma il termine P.dore, quel riedificare ci dice naturalmente che lì giacevano i resti di un altro edificio religioso. Il suo diroccamento dovrebbe essere avvenuto nel 643, l’anno in cui Rotari, re dei Longobardi, dopo avere infranto due anni prima la tregua con i Bizantini scese in Val di Magra, aggirò la fortezza di Filattiera ed espugnò Luni facendone abbattere le mura. Quindi si avventò verso le estreme difese greche. E fu allora che portò morte e sgomento nel golfo. Devastate Luna/Selene e Portovenere (entrambe basi della flotta imperiale), passò quindi sulle montagne della Val di Vara, distrusse Carpena, Albereto e tanti altri piccoli villaggi, sfondò il fronte del Bracco e dilagò con le sue orde verso nord occupando in breve tempo tutta la Liguria litoranea. Passata la tempesta, non pochi arimanni (longobardi) presero la residenza sulle rive del golfo e dintorni come testimoniano i toponimi Gaggiola (la Vivera dei romani), Gaggie e Cafaggio (vedi la zona di Ameglia), nomi che potevano derivare da Gahgi, cioè terreni chiusi. La denominazione Gaggiola dimostrerebbe dunque che un ceppo degli invasori mise profonde radici alla Spezia. Come curiosità possiamo ricordare alcuni vocaboli rimasti nella lingua italiana quale eredità dell’occupazione longobarda: balcone, gruzzolo, guadagnare, magone, guancia, palla, milza, manigoldo, panca, zazzera, zuffa, scherzare, stecco, schiena sguattero, sberleffo, e via citando. Dal canto loro, come raccontano talune leggende locali piccoli gruppi di Greci scampati alla furia longobarda si rifugiarono nelle vallette sovrastanti la costa delle Cinque Terre fondando piccoli paesi. Nel frattempo, mentre vescovi e monaci si disputavano ricche proprietà terriere del golfo, e mentre la sfortunata Luni umiliata da Rotari già imboccava un lungo viale del tramonto, nel 740 un’altra chiesa sorgeva a margine del modesto abitato che oggi chiamiamo a Migliarina, e come ai tempi delle guerre fra Apuani e Romani i dossi collinari tornavano a popolarsi di gente in fuga dal piano dove infierivano ancora le bande barbare e dove avevano fatto da poco la loro comparsa le masnade saracene che avevano preso a terrorizzare le popolazioni costiere, un incubo che durerà mille anni. Un’importante attività economica si svolgeva nelle corti, ristrette comunità che ebbero una grande diffusione nel periodo di maggiore fulgore del regno longobardo. Si trattava di piccoli villaggi fortificati nei quali le genti del circondario correvano a rifugiarsi all’approssimarsi di bande ostili. Circondate da appezzamenti di terreni chiamati masi coltivati da contadini, erano di fatto grandi aziende agricole autarchiche che producevano quanto bastava per le esigenze della consorteria. Uno dei modelli di questo tipo di economia detta curtense era la corte di Camixano. Dopo un secolo di relativa pace, nel 773 la Liguria fu scossa da un nuovo evento che doveva lasciare una traccia profonda nei libri di storia: chiamato da papa Adriano, Carlo Magno, Re dei Franchi, entrò in Italia per mettere fine al dominio longobardo, e quasi senza colpo ferire, anche grazie all’atto di sottomissione che gli abbati di Brugnato e Bobbio si erano affrettati a firmare, occupò la Provincia Maritima che fin dal 552 aveva Luni quale capitale. Di fatto cambiò poco sotto il profilo politico, perché il Ducato longobardo veniva semplicemente rimpiazzato da un Marchesato carolingio. Ai primi del IX secolo, sotto la corona di Pipino, figlio di Carlo Magno, la Provincia venne ribattezzata Litora Maris e suddivisa nei Comitati di Luni, Genova, Vado e Albenga affidati al governo di Conti. Il Comitato di Luni, i cui confini coincidevano con quelli della Diocesi, era delimitato dal torrente Versilia, dal Serchio, dallo spartiacque fino alla Cisa, dal Gottero, dal Gotra, dallo spartiacque fino a Monte Scassello, torrente Stora, il Vara fino al torrente Malacqua, Monte Guaitarola, e in mare dalla linea tesa tra la foce del Versilia e Framura, il medesimo comprensorio che oggi con un termine un po’ desueto definiamo Lunigiana storica. L’amministrazione lunense era affidata al vescovo-conte. Nell’ottobre dell’801 tale Isacco, un giudeo appena rientrato da Baghdad dove si era recato come ambasciatore di Carlo Magno per una missione diplomatica presso il potente califfo Harun ar-Rashid, in viaggio verso la Francia si fermò a Portovenere dove venne accolto con tutti gli onori. L’avvenimento è citato negli Annali del cronista franco Eginardo, il che testimonia l’importanza che in quel periodo rivestiva il borgo di San Pietro, la cui suggestiva chiesetta – è il caso di ricordarlo – fu consacrata da Papa Gelasio II nel 1118. Quella era anche l’epoca delle più spaventose scorrerie dei pirati saraceni e normanni (nella notte di Natale dell’860 Luni fu espugnata con l’inganno e poi devastata dal vichingo Hasting), e poiché i paesi marinari erano troppo esposti alle loro incursioni si verificò una migrazione non solo di genti ma anche delle sacre reliquie custodite nelle chiese litoranee verso ricoveri più protetti. Per tale ragione le spoglie mortali di Venerio, il monaco morto il 13 settembre del 640 al Tino e lì fatto seppellire da Lucio, vescovo di Luni, già fatte trasferire sul finire del VII secolo dal presule lunense Leutecario nella località Antoniano o Campitello, oggi Pieve di San Venerio, essendo divenuto poco sicuro anche codesto luogo nell’816 furono portate a Reggio Emilia su ordine del vescovo di quella città, Apollonio, al quale Ludovico I, figlio di Carlo Magno, aveva assegnato il ruolo di “guardiano del litorale”. Le reliquie di Venerio torneranno al Tino in un tripudio solo nel settembre 1960 sotto il Papato di Giovanni XXIII il quale il 10 marzo del ’61con la bolla “Cursum Vitae” nominerà Venerio santo patrono del golfo della Spezia e dei faristi d’Italia. Il trasferimento in Emilia salvò di sicuro quelle reliquie perché nell’849 gli Arabi trovando le coste prive di difese infierirono a lungo tra Luni e la Provenza penetrando più volte, fin nel profondo dello stesso golfo della Spezia, borgo che peraltro ancora non esisteva. Intanto, mentre le Repubbliche di Pisa e Genova cominciavano a darsele di santa ragione, con Atto datato 9 giugno 890 dal palazzo reale di Pavia Re Berengario confermava al vescovo di Luni, Odelberto, i privilegi di immunità già goduti dai suoi predecessori e vietava ai giudici pubblici l’accesso alle terre della Chiesa. Nel 950, invece, con provvedimento di Re Berengario II si attuò un’ulteriore importante riorganizzazione amministrativa con l’istituzione di tre nuove Marche tra cui la Marca Obertenga (detta poi Januensis) nella Liguria orientale; e il conte di Luni, Oberto, venne nominato Marchese, titolo che gli conferiva autorità sui Comitati già appartenuti ai Marchesi di Tuscia, Genova, Tortona, Piacenza, Parma e, ovviamente, della Luni medesima. A questo stesso anno 950 risalgono le prime notizie sull’esistenza di una pieve a Marinasco e di cappelle e casolari alla Foce, a Stra, a Vesigna, a San Rocco, a Fabiano, a Sommovigo, a Rebocco, a Sant’Anna, a Cozzano, a Guarzedo, a Carpena, a Biassa, a Volastra, a Campiglia, e altre nei litorali e sui rilievi delle Cinque Terre e della riviera, per non dire della Lunigiana e delle valli del Magra e del Vara dove si riaffacciavano pian piano alla vita minuscoli paesi già desolati dai vandali, dalle pestilenze e dalle carestie. Sempre dal 950 ci arrivano le prime attestazioni scritte dell’esistenza di un luogo chiamato Avenza, sorto a due passi dall’agonizzante Luni. Di Avenza si parlerà più diffusamente nel 1189 allorché il vescovo di Luni concederà il permesso di costruzione d’un «borgus novus» vicino all’«acqua dell’Avenza» e al litorale marino, ma è probabile che lì preesistesse un piccolo insediamento discendente di un fondo romano legato alla vicina colonia. Nel 963 a occuparsi di Luni fu addirittura un imperatore: con diploma datato 19 maggio Ottone I confermava al vescovo di Luni, Odelberto, il possesso di ventuno corti, due sole delle quali protette da un castello, e di quattro altre fortezze situate in località non considerate corti, tra cui Ameglia. Si trattava dei castelli di Massa, di Trebiano e di Sarzana, della corte di Luni «cum mercatis et pertinentis suis»; e delle corti di Ceparana con mercato e castello, di Carria, di Cliva con pertinenze, Serviliano, Lavaclo, Brunengi, Massa, Pedegniano, Cararia, Niblone, Curvasano, Bardano, Vezzano con castello, Cuscagnano, Sant’Andrea, Bracerio, Exlato, Porto con la chiesa di Santa Giuliana, e infine la corte di Piacenza con relative pertinenze. A ricordarci dell’antica base militare romana di Luna (è opportuno ripetere: da non confondersi con Luni) sono adesso solo vecchi fabbricati diroccati dai Longobardi e dai Saraceni, muri sbrecciati dalle intemperie e ricoperti dai pruni e dalle erbe infestanti, rovine che nel 1300 saranno sminuzzate dagli spezzini per riciclarne il pietrame nella costruzione delle mura di cinta della città. Nel frattempo Luni, desolata anche dal normanno Hasting e dall’arabo Mugìâhid ibn abd Allah al Amiri detto Museto, sta consumando gli ultimi suoi giorni, abbandonata dagli abitanti che la diaspora sparge in giro popolando Sarzana, i borghi della valle e i minuscoli villaggi del golfo. «È all’alba del Mille – leggiamo ancora in Luna – che la vita sembra ritornare, se non altro sotto il profilo documentale: il monastero del Tino diventa una potenza economica acquisendo Palmaria, Tino e Tinetto, la pieve di San Venerio con i connessi pregiati dintorni, la chiesa di San Nicola di Arcola, la corte di Frasso, in Corsica, il Monte Perego (la collina di Montepertico); i marchesi Obertenghi che tutto governano dall’avito castello di Arcola, cuore del feudo, estendono la loro signorìa alle terre del golfo con insediamenti rurali fortificati a Panigaglia, Varignano e Fezzano; nel 1003 la famiglia Da Passano fa costruire la chiesa di Santa Maria Assunta a Piazza di Deiva Marina; nel 1051 si ha notizia della scoperta di un’ara romana a Vivera; nel 1081 spunta il toponimo Ariana che muterà in Piandarana, la spianata sulla quale nel 1885 sorgerà il quartiere Umbertino; nel 1084 compare in un atto privato burgus di Sarzana, e l’anno seguente sui resti di un’antichissima chiesa viene edificata la pieve di San Venerio mentre da tempo prosperano la stessa Arcola, Vezzano e l’antica capitale dei Briniati, Brugnato, città, quest’ultima, che nel 1133 diventerà sede vescovile in lotta con l’ectoplasma di Luni. E a proposito di Luni, il regesto del Codice Pelavicino ci propone poi un documento, riferibile all’anno 1055, con il quale il vescovo Guido e ser Rodolfo di Casola si accordano per la costruzione di un castello a Soliera. Con quel patto Rodolfo si impegnava a pagare metà delle spese di mantenimento del maniero, e a difenderlo da eventuali attacchi e a riconquistarlo nel caso il vescovo se lo fosse fatto portare via». L’autorevolezza e la potenza dell’Episcopio di Luni, benché la città fosse ormai un relitto abbandonato in balia del tempo, trovano conferma in un atto firmato a Regnano, redatto dal notaio Bernardo il 19 gennaio 1066, con il quale Guiterno figlio di Guidone di Regnano donava al Vescovado il castello di Regnano con le sue pertinenze. Arriviamo così al 1071 quando ecco finalmente spuntare alle cronache del mondo il nome Spexia.
«La notizia – spiegava Ubaldo Mazzini nella sua Storia del golfo della Spezia, opera rimasta incompiuta – si trova in un documento del 25 luglio 1071, rogato dal notaro Gontardo, con cui Abone figlio del quondam Garimondo dona al monastero di S.Siro in Genova i beni mobili ed immobili che ha nei luoghi di Calossa, della Serra e della Spexia». E con l’anno Mille e con la Spexia che nasce, si chiude la lunga parentesi dell’Alto Medioevo.