LA MADONNA DELLE GRAZIE
Da wikiSpedia.
Delle tre sagre che nel lato occidentale del golfo seguono a breve distanza l’euforico Ferragosto, la Madonna Bianca dì Porto Venere (17 agosto), la Madonna delle Grazie (8 settembre) e San Venerio Eremita (12-13 settembre), la Madonna delle Grazie è la meno documentata per studi e ricerche d’archivio e pubblicazioni, a malgrado l’importanza conferitale dalle folle che ogni anno accorrono ad onorarla dai paesi del golfo e dell’entroterra. Riesce pertanto difficile ricostruirne l’origine e le vicende, come invece è risultato più facile per la Madonna Bianca, la cui apparizione miracolosa, nella veste attuale (nel 1399 da una vecchia ed annerita icone di scuola fiorentina) fu consacrata in atto notarile, firmato da molti testimoni, che si conserva tuttora nella chiesa parrocchiale. Lo tentò Fulgenzio Ferro, esimio storiografo delle Grazie, in sue pubblicazioni del 1911 e del 1922; ma la messe di notizie raccolte è un po’ scarsa. Anche l’immagine della Madonna delle Grazie ha tutti i caratteri di una icone della prima scuola fiorentina. Il quadro, ottantatrè centimetri di altezza per sessantuno di larghezza, è su legno e la pittura è fatta sopra uno strato di gesso. Secondo una tradizione antichissima la Madonna in questione era già venerata nella chiesa del monastero della Palmaria e passò poi in quello del Tino. Il primo esisteva già al tempo di San Venerio (secoli VI-VII) che vi fece il suo noviziato; l’archeologo del golfo professor Ubaldo Formentini ne confermava il titolo in San Giovanni (nella località che ne ha tuttora il nome) mentre il Ferro gli attribuiva quello di Santa Maria, per l’appunto in onore della preziosa icone ivi conservata. Il monastero del Tino, invece — del quale esistono le rovine, ora riattate alla meglio — venne costruito dai Benedettini intorno al 1050 sotto la denominazione di Santa Maria e San Venerio, confermata in molti documenti, anche pontifici. Poiché il cenobio di San Giovanni alla Palmaria fu distrutto dai pisani nel 1282 (ne asportarono anche le campane), si potrebbe dedurne che il quadro della Madonna fosse stato portato al Tino già all’atto della fondazione del monastero (1050), oppure in epoca successiva. Ciò sembra avvalorato dall’asserzione del Ferro che furono proprio i monaci del citato monastero della Palmaria a trasferirsi al Tino ed a conferire al cenobio il titolo suddetto. Salita, come noto, l’abbazia di Santa Maria e San Venerio del Tino a grande rinomanza e possesso di beni territoriali, gli Olivetani che vi erano succeduti ai Benedettini nel suo governo, fondarono un loro cenobio sulla collina detta del Varignano Vecchio, nell’interno del golfo (o vi riattarono un loro preesistente convento). Indubbiamente per ragioni di sicurezza, a causa del nuovo periodo di guerre nel quale la repubblica genovese era coinvolta (nel 1379 il monastero del Tino era stato saccheggiato a fondo da galee veneziane) e poco si era salvato, nonostante la previdenza dei monaci, del suo prezioso arredamento. Infine (nel 1470 secondo il Ferro) gli Olivetani trasferirono, corpo e beni, la famiglia del Tino al Varignano, lasciando al Tino un solo monaco e qualche converso che ne officiarono la chiesa fino al 1763. Il resto è storia nota. Il culto alle Grazie della Madonna, ivi trasportata dal Tino nell’anno suddetto (o forse prima, per ragioni di sicurezza), attirò nella località i fedeli della regione e nel 1511 gli Olivetani vi costruirono la chiesa attuale, pare in sostituzione di altra più antica del convento. Data da allora il nome Le Grazie conferito alla piccola borgata, sorgente nella profonda insenatura compresa fra il Capo Opecino (il Pezzino) e la punta del Varignano, che gli antichi chiamavano Ria, nome tuttora riservato alla parte del grosso e industre borgo sorgente sulla riva del mare. Secondo alcuni, il nucleo più antico delle case costituenti la Ria esisteva già al tempo in cui i genovesi si insediarono a Porto Venere (1113) e costituiva una dipendenza dell’antica parrocchia di Panigaglia. Dicesi anche che il poeta latino Aulo Persio, vissuto intorno all’anno 60 dell’era cristiana, possedesse una villa sull’aprica collina, nella quale gli archeologi hanno messo in evidenza resti ben conservati di cisterna romana. A proposito di ville, si legge in una storia degli Olivetani che nel 1406 una pia donna portovenerese di nome Costanza donava la Villa del Varignano per costruire nella sua area l’attuale tempio. E « Villa » chiamasi tuttora l’ampio tratto di terra coltivata che sovrasta la chiesa e il convento verso il Varignano Vecchio. Espulsi nel 1798 da un generale napoleonico gli Olivetani, il convento e l’annessa villa passarono in mani private; ma poi, per gioco di eredità, la villa divenne possesso dei Benedettini, mentre un ritorno alle Grazie dei monaci del Monte Oliveto che furono a suo tempo i possessori di diritto del convento e della villa ci risulta vivamente auspicato dalla popolazione. Fortunatamente, la « villa » si trova in zona compresa nel « piano verde » e non è da temersi — almeno per il momento — che la bellezza del colle sia deturpata con qualche brutta costruzione edilizia. Quanto al convento, col suo bel chiostro, i famosi affreschi quattrocenteschi di Nicolò Corso (testé passati in proprietà al comune) non vediamo alcun segno delle restaurazioni a suo tempo progettate, e propugnate anche da Luigi Cardinale in suo articolo su La Nazione datato già dall’11 agosto 1963, nonché dall’avvocato Ettore Andrea Mori, dal professor Romolo Formentini ed altri autorevoli esponenti della cultura regionale.