FAMIGLIA DEL SANTO
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Versione delle 13:46, 15 lug 2011
La “rivoluzione” dei Del Santo Iprogenitori Del Santo vennero alla Spezia in tempi ormai remoti. Nessuno potrebbe dire esattamente quando. Secondo la mitologia familiare, fondatrice della schiatta sarebbe stata una bellissima signora di nascita tigullina. Ella avrebbe generato da un alto prelato (vescovo, cardinale?) soprannominato “il Santo” due figli maschi. Di qui il cognome Del Santo, che è – sebbene a suo modo – un patronimico poiché deriva dal padre: non dal nome, ma dall’aggettivo che ne qualificava la vita (o, almeno, avrebbe dovuto qualificarla). I figli del Santo. Ottenuta una rendita garantita e ricevuta in partenza una calda benedizione, la genitrice sarebbe stata mandata alla Spezia tra il seguito dei Fieschi. I figlioli, il cui genio era in entrambi buono e senza grilli, entrarono ed introdussero le rispettive discendenze nel giro ordinario della ruota del mondo. Intrapresero qui il mestiere di falegnami, anzi di maestri carpentieri e si specializzarono l’uno nell’allestimento di botti e di barili – è il cosiddetto ramo dei “barilai” – e l’altro nella costruzione di carrozze, cioè il tralcio dei “carrozzieri”. Costoro (ossia l’ala di cui dobbiamo parlare) devono l’appellativo all’attività artigianale espletata, esclusiva per lunghissimo tempo e poi congiunta con l’impresa setteottocentesca di trasporti con cavalli. Essa disponeva altresì di diligenze per collegamenti extra-urbani, di tram a trazione animale e di lussuosi “landeau” con una o due coppie equine: una sciccheria. Il loro virgulto venne sempre considerato in città – a torto od a ragione – il più dinamico e ricco del ceppo. D’altronde la gente è portata a giudicare in base a ciò che vede ed i Del Santo “carrozzieri” furono sempre “à la page”, in progresso, in sviluppo ed in potenziamento. L’ultimo sensibile impulso venne impresso all’azienda da Domenico Del Santo, vissuto nella seconda metà del secolo XIX, il quale non poteva davvero prevedere di dover essere l’imprenditore finale del trasporto nel casato. Sposato con Giovanna Tartarini e padre di Anna e di Angiolo, egli stimava che il suo secondogenito avrebbe raccolto e portato avanti l’ormai consolidata tradizione familiare. Di conseguenza enorme scalpore dovette sollevare la decisione di Angiolo Del Santo di farla finita e con gli strumenti di lavoro da carrozzieri e con il servizio trasporti. Aveva undici anni quando, nel 1893, manifestò una prepotente vocazione e, sentitosi chiamato a fare lo scultore, stabilì di diventarlo per sempre. Scrisse nel suo diario: “... la mia è una prepotente vocazione è tale proporzione che travolge me stesso. Mi sento chiamato a fare lo scultore: ho deciso per sempre; la mia fiamma è accesa e non vacillerà più: farò lo scultore!”. Ed in effetti egli divenne il più importante artista del ramo che la Spezia possa vantare. A nulla valsero le ostinate resistenze dei genitori, né l’obiezione d’essere lui l’unico erede maschio in grado di conservare il nome dell’impresa e non la sorella Anna. Angiolo non prese neppure in alcuna considerazione la silloge di apologhi garibaldini – vanto della famiglia – secondo i quali i fiaccherai Del Santo avevano preso parte ad episodi risorgimentali memorabili come quello in cui Domenico, mandato nel novembre 1867 a ricevere alla stazione una persona diretta a visitare Garibaldi al Varignano, incuriosito dal veder arrivare una signora rigorosamente in nero, con il volto coperto da una fitta veletta, insospettito dalla circospezione ossessiva delle persone presenti intorno all’ospite, si accorse che la misteriosa signora era in realtà il condannato, latitante e ricercatissimo Giuseppe Mazzini travestito. Il fuoco dell’arte acceso non si sarebbe estinto più. Il percorso, irto e difficile, sì sviluppò per fasi, in città e fuori. A Carrara, presso l’Accademia di Belle Arti ove frequentò brillantenente i primi due anni di corso e che, delusissimo, abbandonò nel 1898 per essergli stato negato di anticipare gli esami d’ingresso all’ultimo anno; a Genova, nell’atelier del rinomato scultore Scanzi, dove non venne accolto con suo grande dolore come allievo; alla Spezia, costretto a barcamenarsi alla meno peggio nello studio aperto in via dei Molini, sofferente – tra l’altro – nel fisico a causa d’una grave malattia respiratoria; infine a Torino dal suo vero maestro, Leonardo Bistolfi. Vi rimase otto anni, dal 1909 al 1917, e ne uscì formato, plasmato, perfetto nelle tecniche. Contro il Bistolfi la critica si accanì a lungo, anzi giunse al punto di definire “bistolfismo”, con forte accentuazione negativa, gli influssi esercitati dallo scultore torinese su altri artefici importanti e di rilievo come Wildt, Duilio Cambellotti o Zanelli. Angiolo Del Santo non vi prestò la minima attenzione e proseguì per la sua strada, di successo in successo, attraverso le opere che – nate da un’altissima coscienza morale ed estetica – andarono ben al di là dei sofismi critici, delle domande dubbiose, degli atteggiamenti censori. Egli fu – si disse – uno scultore eclettico. Nell’affermazione non elogiativa era tuttavia contenuta a parer nostro una serie d’indiscutibili riconoscimenti: la sua grande varietà ispirativa, un’ineguagliabile ricchezza di fantasia, la piena e geniale capacità di riprodurre motivi differenti interpretando l’anima delle scuole in cui essi erano sorti. Richiami costanti, ad ogni modo, restarono sempre in lui quelli per il Manierismo rinascimentale, momento eccelso della capacità umana d’espressione artistica. Dopo il ritorno alla Spezia da Torino, Angiolo Del Santo si tuffò, identificandovisi completamente, nel lavoro fino alla prematura morte avvenuta nel 1938 quand’aveva cinquantasei anni. Egli ha lasciato moltissime opere d’indubbio valore, alcune addirittura recanti l’impronta del tocco di genio. Una loro analisi completa sarebbe di certo interessante e ci piacerebbe farla, ma trascenderebbe limiti e fini del presente lavoro. Ci conteniamo di conseguenza a citarne una sparuta parte ad esclusivo titolo esemplificativo. Innanzi tutto le figure della stele scolpita nel 1919 per la tomba Cima-Bertonati nel cimitero della Spezia, intitolata “Incipit vita nova”, in cui – come ha scritto un insigne critico contemporaneo – “... traduce in carne vera, in sensualità dei corpi senza compiacimenti anatomici, l’idea del passaggio da un mondo all’altro...”. E ancora la targa della Vittoria del 1922 per il distrutto palazzo Civico nella piazza Giulio Beverini, i monumenti a Capellini e ad Ubaldo Mazzini del 1924-25, la preziosa scultura di Niccolò Paganini del 1935 – il suo canto del cigno – per il Comune di Carro. Va da sé che il grande artista sia divenuto il centro di riferimento ordinario per l’intera progenie e che lo rimanga. Ma bisogna ricordare che dal suo matrimonio con Giulia Cavalletti sono discesi tre figli: Giovanna, mancata prematuramente, l’ingegner Luigi ed il dottor Gabriele. Luigi DeI Santo, ingegnere civile, è sposato con Anna Portunato. Hanno avuto due figli: Maria Giulia, andata in moglie all’ingegnere Moreno Pastine, è mamma di Margherita; Angiolo, dottore in Scienze politiche, lavora “part-time” alle Assicurazioni Generali, ma fa anche (non senza esiti) lo scultore, attività per la quale si firma Angiolo Del Santo junior con l’occhio ovviamente puntato sugli allori artistici del nonno. Egli è sposato con Consuelo Barsacchi ed il loro rampollo (di cinque anni) si chiama Leonardo. Il secondogenito di Angiolo senior, Gabriele, detto Lele, dottore in legge, ha sposato Nadia Rumaneddu. I loro discendenti sono Mariangela, dottoressa in Lingue straniere, docente dell’Istituto Fossati di Bragarina ed Enrico Maria, laureato in Giurisprudenza, agente delle Generali alla Spezia. Questi ha preso in moglie Lorella Pistelli ed i loro bambini si chiamano Matilde ed Eugenio, di sette e tre anni rispettivamente. È opportuno rilevare, prima di concludere, che ormai da un prolungato periodo i Del Santo “carrozzieri” hanno volontariamente e con fermezza accantonato siffatto appellativo e che, quanto meno, esso non corrisponde più in alcun modo alle loro condizioni personali e familiari. Qualora si voglia proprio, per abitudine inveterata, distinguerli dai “barilai” omonimi, sarà corretto – e rispondente alla situazione – chiamarli Del Santo “accademici”. Essi sono infatti entrati completamente, ancora nell’ultimo scorcio del secondo Millennio, nel mondo dell’arte e delle professioni liberali ove mostrano di trovarsi assai bene e dove intendono permanere per la loro storia futura.