CAMPIGLIA
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- | + | E’ interessante conoscere, ai fini storici e di costume, come vivessero nel borgo i nostri antenati Campigliesi, durante il periodo 1850/1930. A questo proposito abbiamo scritti e testimonianze di quell’epoca provenienti: dalla consultazione dell’Archivio parrocchiale (redatto a partire dal 1740), dal testo pubblicato nel Maggio del 1907 dall’antropologo Sittoni intitolato “I viticoltori di [[TRAMONTI| Tramonti]]”, che descrisse così bene lo spaccato di usi e costumi degli abitanti dei paesi di Biassa e Campiglia, ciò che li accomunava e ciò che li divideva, fino alla più diretta testimonianza di storia tramandata oralmente dai genitori ai loro figli, e così via sino ai giorni nostri. Per Campiglia, l’anno 1930 ha rappresentato il periodo di massimo splendore, la sua popolazione contava allora 470 anime, ed era andata fino a quel tempo sempre in crescendo. E' da rimarcare una particolarità: gli abitanti del paese rispondevano a due soli cognomi, Sturlese, in maggioranza, e Canese. La comunità contadina ebbe poi da quella data una lenta ma continua regressione, causata soprattutto dalla comparsa di un piccolo insetto proveniente dalla Francia, un afide, chiamato filossera, che attaccò in misura devastante, distruggendo le prosperose viti che erano state la principale forma di sostentamento della popolazione locale. Da allora è iniziato un lento ma consistente esodo dei residenti del paese verso altri lidi alla ricerca di una migliore forma di vita e sopravvivenza. Consultando gli antichi libri che si trovano in Parrocchia si riscontra come, fino agli inizi del ‘900, un certo numero di Campigliesi fosse analfabeta, prova ne sia che nel registro delle nascite ove era richiesta la firma per esteso del capofamiglia, molti di loro apponevano la croce. Nel passato però il paese ha dato anche i natali a figli che si sono distinti nella vita sociale e politica della comunità. Uno degli antenati campigliesi più rappresentativi è stato Canese Michele, nato agli albori dell’800. Egli ebbe molti incarichi nell’ambito politico locale; fu infatti il primo consigliere eletto a Campiglia chiamato a sedersi fra i membri del consiglio comunale di Spezia: Campiglia era parte integrante del circondario e comune di Spezia, con Genova allora capoluogo della provincia. Fu eletto nel consiglio in base alla nuova legge allora varata, che permise le elezioni con scrutinio separato nelle frazioni rispetto al comune capoluogo. Tra le sue gesta si ricorda che ebbe il privilegio nel 1853 di accompagnare per mano il principe di Casa Savoia Umberto I, allora bimbo di 9 anni, diventato in seguito Re d’Italia, in visita a Campiglia e luoghi limitrofi, proveniente dall’albergo Croce di Malta di Spezia (ai tempi il nome della città veniva indicato senza l’articolo determinativo che ha oggi). Nel 1865 durante la costruzione dell’Arsenale Militare ebbe un encomio scritto dal Generale Domenico Chiodo progettista della grande struttura. Nella motivazione viene ricordato il supporto del Canese per la fornitura di pietre scalpellinate, tratte dalle cave della zona e modellate a mano da specialisti del settore, tutti campigliesi. Un campigliese, questa volta di adozione, tale Carro Pietro di Francesco nato a Spezia il 29 Giugno del 1850 passa senz’altro alla storia del piccolo borgo collinare, per altre motivazioni che vedremo in seguito. Il 5 Maggio del 1877 viene assunto con la qualifica di “operaio di marina” presso l’Arsenale Militare di Spezia: nel 1879 incontra la sua anima gemella a Campiglia, con lei si sposa e si trasferisce ad abitare in paese. Ogni giorno, per innumerevoli anni, fino alla sua pensione, datata 6 Agosto 1908, egli al mattino presto si reca al lavoro laggiù nello stabilimento militare percorrendo la mulattiera, formata da 2050 scalini, a cui vanno aggiunti almeno 3 Km. di viottoli appena tracciati e sconnessi per quell’epoca. Alla sera deve percorrere a ritroso la solita strada che come si ricorderà si inerpica sino a raggiungere un’altitudine di 400 metri, incurante delle varie condizioni metereologiche che troverà. Al termine del suo rapporto di lavoro, perpetuatosi per 31 anni, può godere di una pensione di “diritto” per anzianità di servizio. Al momento della cessazione del rapporto di lavoro la sua paga giornaliera ammontava a Lire 3.50. La Corte dei Conti dell’epoca gli liquida quindi una pensione di lire 630. Certamente il nostro antenato Carro Pietro, amava ed era legato moltissimo alla sua sposa, per essersi sottoposto per anni ad una vita così dura, fatta di lavoro e di spostamenti: probabilmente anche il vivere a Campiglia gli piaceva. I genitori crescevano i figli, e fin dalla più tenera età insegnavano loro come diventare dei provetti contadini dediti alla coltivazione della vite ed in generale alla cura dei campi, disposti su terrazzamenti (canti o fasse), ove anticamente i principali strumenti di lavoro per movimentare la terra erano: la picchetta (picheta) tipo di zappa molto stretta e ricurva e la zappetta (sapeta) attrezzo a forma di foglia ricurva con punta; più recentemente questi attrezzi si sono evoluti nella forma dando luogo a: la zappa (pigon), maggiormente usata per lavorare i terreni seminativi e il bifolco (biforco), particolare attrezzo con corto manico e due rebbi ricurvi, esclusivamente usato nei vigneti. La vanga in queste zone non ha mai trovato utilizzo, specialmente nei vigneti, data la particolare disposizione di filari (paede) e a maggior ragione nei pergolati (autedi), ove è impossibile farne uso. E’ notorio però che l’uso della zappa e del bifolco sia molto più faticoso di quello della vanga, ma il vignaiolo, con giuste motivazioni, è ormai abituato da secoli a lavorare curvo, quasi con la faccia a livello del terreno, con questi due attrezzi ormai idealmente divenuti i prolungamenti naturali delle braccia. I Campigliesi, dediti così alla cura dei campi, trascuravano gli studi e la scuola: solo intorno agli inizi del ’900 vennero istituite a Campiglia le elementari, si trattava dei primi tre anni di corsi gestiti da una sola maestra, chi aveva le possibilità economiche, poteva concedersi di distogliere l’aiuto di un figlio, anche in tenera età, dal lavoro dei campi: il bambino poteva così, avendone le capacità, frequentare le elementari: doveva allora giornalmente scendere a piedi fino a Marola lungo la mulattiera, e relativo viaggio di ritorno. Tra i paesani che ebbero la possibilità di intraprendere con successo gli studi vi fu Gio Batta Sturlese, nato nel lontano 1777 e mandato dal padre Gaspare in seminario a Sarzana. Il ragazzo divenne, nel 1803, cappellano della Chiesa di Santa Caterina in Campiglia, dove rimase sino al 1804. La chiesa di Campiglia era ancora dipendente dalla Chiesa di San Martino di Biassa, non poteva vantare propri territori e confini precisi. Nell’anno 1839 in paese fu costituita la prima fabbriceria parrocchiale; don Gio Batta fu richiamato, risultando quindi il primo parroco rettore della parrocchia divenuta definitivamente autonoma da quell’anno. Rimase in carica fino alla sua morte, a 80 anni, nel 1857 e fu tumulato nel deposito dei parroci, luogo che ancora oggi è indicato e visibile, al centro del presbiterio della chiesa. Le famiglie erano di solito numerose, 8 o 9 figli non erano infrequenti: vivevano tutti insieme sotto lo stesso tetto, fino al giorno delle nozze, i figli erano considerati una risorsa, braccia per il lavoro nei campi. Le donne avevano un compito molto importante nell’ambito e nell’organizzazione della famiglia contadina: in tenera età veniva loro insegnato a cucinare e preparare i pasti, che spesso dovevano essere portati lontano, ai genitori partiti all’alba e affaccendati nel lavoro dei campi fino al tramonto; in assenza della madre, la più grandicella aveva la responsabilità di seguire i fratelli più piccoli, di accudire (nudrigae) gli animali da cortile, condurre al pascolo pecore e capre. Diventate giovanette imparavano l’arte del cucito e della maglia, ai ferri e all’uncinetto, compresa la filatura della lana grezza, erano quindi pronte per il matrimonio, e si potevano formare così nuovi nuclei famigliari. Molti coloni campigliesi possedevano due o più pecore utilizzate per fornire lana, latte e prodotti derivati formaggio (formaiete) e principalmente ricotta (recotu). La tosatura delle pecore si svolgeva in primavera inoltrata, nei giorni di pieno sole, solitamente in aie o nella grande area di Piazza della Chiesa, ove gli animali venivano condotti, e manualmente le donne procedevano, fra vociare e belati vari, alla raccolta della lana. La stessa dopo opportuno lavaggio, depurata dalle varie intrusioni, era pronta per costituire l’imbottitura di materassi da letto o per essere filata: le mani esperte delle campigliesi, per mezzo di una canna aperta ad una estremità (ruca) procedevano al lavoro per realizzare il cosiddetto filato. Dal batuffolo di lana grezza posto sull’estremità della ruca e con l’ausilio di un fuso di legno realizzavano un lungo filamento ritorto di lana che mano a mano veniva avvolto intorno al fuso stesso. Analoga operazione si eseguiva con l’ausilio di un secondo fuso. I due singoli filamenti venivano poi avvolti in un unico gomitolo, dopodiché si riutilizzava uno dei due fusi per ritorcere insieme i due filamenti. Il prodotto finale veniva avvolto avvalendosi dell’avambraccio, solitamente il sinistro, nella parte tra pollice ed indice e zona inferiore del gomito, formando una matassa (a seta), che al termine della lavorazione veniva lavata. Questo filato a due capi veniva impiegato per fare calze, biancheria intima, etc. Ove si dovevano realizzare opere di una certa consistenza e dimensione era necessario l’impiego di un filato di partenza di più grande diametro, si poteva con il procedimento descritto inserire un terzo filo, venivano create così: coperte, scialli, tappeti, solette (soete) per rivestire l’interno degli scarponi. Nell’ipotesi che le matasse di lana dovessero essere utilizzate per confezionare maglie di colore bianco uniforme, si procedeva alla sbiancatura. Si trattava di un procedimento empirico che consisteva nel porre il filato di lana in un grosso vaso di terracotta, detto concone (concon), lo stesso che veniva utilizzato per fare il bucato, sul fondo del quale veniva bruciato dello zolfo, che con i suoi fumi provvedeva a sbiancare le matasse o eventualmente un indumento di lana già confezionato. Sia le matasse che il capo in questione venivano posti sull’apertura del vaso ancora umidi per la preventiva lavatura. A lavoro compiuto, dalla matassa si realizzavano uno o più gomitoli che servivano per le future confezioni. Le sapienti mani delle donne campigliesi avvolgevano i gomitoli traendoli dalla matassa, facendosi di solito aiutare dai più giovani della famiglia, che dovevano tenere la matassa, con le due braccia allargate. I gomitoli che venivano avvolti, di solito presentavano due fori ai poli estremi, segni della presa delle due dita, pollice ed indice della mano sinistra, mentre la destra avvolgeva il filato con movimento rotatorio, il gomitolo alla fine risultava essere ovale, di notevole durezza a causa della tensione esercitata nell’avvolgere la lana. Un particolare e caratteristico prodotto realizzato manualmente ai ferri era il magliolo (maieo), maglia da indossare alla pelle, con maniche lunghe o mezze, girocollo con bordi rifiniti con fettuccia (curdela), con apertura sul davanti, provvista di due o tre bottoni (pomei) a mò di chiusura; indumento molto pesante, veniva portata dagli uomini durante le mezze stagioni e soprattutto d’inverno: nel periodo estivo si indossavano le canottiere sempre confezionate con la lana. Anche le mutande da uomo erano lunghe e rifinite sul fondo con la fettuccia. I contadini erano ormai avvezzi al notevole prurito causato alla pelle che una lana così grezza causava, però lì dentro si stava veramente al caldo. Lo scopo dell’impiego della lana era duplice: proteggere il corpo dall’umidità e dal freddo invernale e durante le dure fatiche nei campi assorbire le abbondanti sudorazioni. Un gran numero di uomini ed alcune campigliesi, data la modesta condizione economica generale, erano soliti camminare a piedi nudi (descausi); così scalzi, fin da piccoli, camminando si formava sotto la pianta del loro piede una spessa uniforme callosità che permetteva di procedere facilmente su terreno accidentato e sui sassi senza minimamente risentirne. Oggi sembra impossibile, ma così scalzi si camminava nei boschi anche durante la raccolta delle castagne, incuranti degli aculei dei ricci che già si trovavano a terra. Le calzature acquistate in città come gli zoccoli di legno o le scarpe di tela, erano le più usate, le donne più ingegnose erano solite guarnire con tela gli zoccoli grezzi acquistati o farsi, da sole scarpe di pezza per sé e per tutta la famiglia. Le scarpe erano considerate un genere di lusso, anche se necessario, venivano calzate solamente alla domenica e nelle grandi occasioni, realizzate in pelle tinta di nero, suola in cuoio, rigorosamente alte, sia per uomo che per donna, fornite di lunghe stringhe (strinche), soltanto poche paesane potevano concedersi anche scarpe basse stringate dotate di largo tacco. Per quelle dei lavoratori, venivano inchiodati sotto la suola dei chiodi particolari sporgenti, più di un centinaio per scarpa, alfine di ridurre al minimo il consumo della suola stessa. Con l’uso continuo i chiodi (brochete) che si consumavano, venivano rimpiazzati da altri nuovi; in paese esisteva l’artigiano esperto (scarpao) in questo tipo di calzature. Per una più lunga conservazione della tomaia, la stessa veniva spalmata con grasso di maiale (sunsa). Quando i Campigliesi scendevano verso la città per effettuare acquisti, portando sulle spalle legna da ardere o il barile (baiseo) di vino contenente 25 litri, mentre il contenitore di legno da 40 litri si chiamava barì, articoli che vendevano a clienti su prenotazione, procedevano scalzi lungo la mulattiera che si raccordava con la strada fino alla località Acquasanta, calzavano poi le scarpe che fino ad allora avevano portato appese al collo, legate tra loro con le stringhe. Dentro le scarpe, per colazione, ponevano le castagne bollite ancora con la buccia (baleti), o in base al periodo dell’anno, fichi (fighi) secchi avvolti in un pezzo di tela, generalmente a quadri bianchi e grigi (mandìlo da grupo), perché veniva annodato sugli spigoli a mò di contenitore. Allo scopo di difendersi dai raggi del sole i bambini e ragazzi portavano in testa un basco, gli uomini o un cappello a falda del tipo Borsalino o un tipo di basco con visiera (a bereta), sempre indossato durante la giornata nei campi; le contadine al lavoro usavano coprirsi il capo con un grande fazzoletto quadrato (mandìlo) piegato a triangolo, allacciato con due lembi di vertice dietro, sulla nuca. Nel periodo estivo per meglio proteggersi dal calore dei raggi del sole, interponevano tra la testa ed il fazzoletto delle foglie di vite o di fico. Molti degli uomini avevano ambedue i lobi delle orecchie bucati, fin dalla più tenera età, e portavano dei semplici orecchini (pendin). Gli uomini inoltre tenevano sempre la roncola (fausin) appesa alla cintola di cuoio (coresa), attraverso un ferro modellato a forma di U, attaccato alla parte posteriore della cintola stessa. A volte sovrapposta alla cintola portavano in vita una corda (soga) arrotolata, il cui scopo era quello di legare il carico di legna da trasportare sulle spalle, o semplicemente un grosso fascio di erba, tagliata per alimentare gli animali da cortile. Il contadino Campigliese, salve rarissime eccezioni, aveva il suo destino segnato fin dalla nascita: ogni giovane campigliese doveva diventare un buon vignaiolo, come il padre, e continuare la coltivazione della vite, che gli avrebbe permesso di sopravvivere dignitosamente per quell’epoca: se non aveva proprietà fondiarie o terreni da coltivare, ma ne conosceva l’arte, prestava a pagamento (giornadeo) la sua opera da altri viticoltori. Appena grandicello seguiva il genitore dal quale imparava a muoversi con disinvoltura nei terrazzamenti, nei boschi, alla marina; apprendeva l’arte di costruire i muretti a secco, arte molto difficile che richiede forza, occhio, ordine, equilibrio, fondamenti di idraulica, conoscenza di come i sassi, e in un muro a secco sono migliaia, vadano spaccati ed in quale ordine disposti. Il lavoratore dei campi doveva avere una buona forza fisica, ma soprattutto una grande resistenza alla fatica che tali aree obbligatoriamente imponevano, a causa anche della notevole acclività (fino al 70 %); per spostarsi ogni giorno nei terreni, il campigliese doveva scendere una lunga scalinata verso il mare, che al termine della giornata lavorativa, doveva essere ripercorsa a salire. Naturalmente mai nessuno scendeva o saliva quei luoghi senza caricare pesi sulle spalle: chi intendeva costruire in paese una casa, portava al ritorno dai campi almeno un grosso masso di arenaria, materiale molto comune in quel versante. Per impiantare un nuovo vigneto in un terrazzamento ancora da dissodare, era necessario fare un’operazione di bonifica (pastenae), scavare cioè nel campo più di una fossa o trincea, a seconda della larghezza del campo, dentro cui venivano gettate ramaglie di alberi di pino, fogliame ed altro: in questa fossa così costituita erano posizionate le nuove barbatelle a distanze prestabilite fra loro, il tutto poi ricoperto di terra; e così avanti a salire, sempre in profondità, circa ottanta centimetri, per mantenere l’umidità necessaria alla sopravvivenza della pianta. Questo faticoso lavoro manuale si eseguiva con piccone e pala o un piccolo cestino (corbela) di corteccia di castagno intrecciata, recante due manici, da usare in alternativa alla pala per trasferire la terra più a monte. Le piante di vite così messe a dimora crescevano e, nel corso degli anni producevano grappoli di uva di diverse varietà, le più diffuse erano: trebbiano, uva di bosco, vermentino, tenoese. Annualmente durante la vendemmia si sceglievano le migliori qualità di uve ed i più bei grappoli, per produrre il noto rinforzato (renforsà). Gli antichi erano soliti lasciare che la pianta si sviluppasse, diventando sempre più grossa, in diametro, e rigogliosa; la vite è una pianta secolare, se non attaccata da malattie specifiche o da parassiti dannosi continua la sua normale crescita. Il tronco che fuoriusciva dal terreno, senza nessun vincolo meccanico e libero di crescere a contatto con il terreno, rimaneva letteralmente sdraiato, in forza del suo peso. Dopo un’opportuna potatura e zappatura effettuata nei mesi da gennaio a marzo, i monconi restanti venivano ancorati su paletti di erica (sarvardin) conficcati nel terreno a distanza dallo stesso di centimetri 40. Nel mese di maggio terminata la fase di arresto della vita vegetativa, la pianta cominciava a germogliare facendo crescere e sviluppando vari nuovi tralci (boti). Normalmente venivano tolti quelli in eccesso lasciandone solo due (brochi) con lo scopo di far crescere e sviluppare lunghi tralci, che dopo la fioritura avrebbero generato i grappoli. Detti tralci, erano tenuti sollevati dal terreno per mezzo dei soliti paletti di erica stipa. I nuovi butti venivano fermati a questi supporti per mezzo di legature costituite da ginestre. A partire dagli anni ’20 anche le donne hanno iniziato a dedicarsi alla legatura, che richiede particolare perizia e manualità. Le ginestre usate provenivano da cespugli, in Liguria abbondano, preventivamente tagliati a zero nel mese di dicembre, permettendo alla pianta di far crescere nuovi virgulti che venivano tagliati, per la raccolta, nel mese di agosto e accuratamente selezionati in base alla lunghezza e utilizzati nei mesi da gennaio ad aprile. I materiali e quindi la tecnica per legare le vigne si sono sempre differenziati rispetto ad altre zone vicine della provincia. Altrove venivano e vengono tuttora usati i rami dei salici (sarso), la pianta di salice trovava sviluppo a Campiglia solamente nel versante affacciato sullo spezzino. L’arte di edificare il muro a secco, perché di arte trattasi, era propedeutica al mestiere di muratore di allora, almeno per quanto concerne la costruzione di edifici con muri perimetrali in pietra: bastava quindi impadronirsi della tecnica di legare con la malta i sassi ed un buon passo per iniziare il nuovo mestiere era realizzato, la buona volontà non mancava di certo. Esistono ancora oggi molti manufatti (casotti), ad uno o due piani, con tetto a due falde, copertura a capanna, o ad un solo spiovente, costruiti con un lato contro la roccia del monte o con il medesimo che sfrutta il preesistente alto muro a secco, i più piccoli di dimensioni solitamente si presentano con perimetro a forma quadrata con lato di quattro metri: alcuni realizzati con la tecnica di posa del sasso a secco, altri edificati con calce bianca spenta, impastata con terra del luogo. Rispetto al paese che giace a 400 metri di altitudine, queste costruzioni si trovano a livelli più bassi, in genere a quote dai 100 ai 250 metri, ed il loro scopo era quello di appoggio e riferimento per il lavoro nei campi più vicini al mare. Generalmente il manufatto, che bene si adatta all’andamento del terreno, era disposto su due piani, tutto realizzato in pietra arenaria. L’accesso recava nel relativo muro un architrave realizzato in sasso: la riquadratura, cioè gli stipiti della porta in ingresso erano costruiti con blocchi di arenaria scalpellinata a forma di parallelepipedo, la soglia di ingresso sempre in arenaria di fattura simile a quella dei “tacchi”. La copertura del tetto era in lastre di pietra (ciapon) anche di 5 centimetri di spessore, lo stesso tipo di pietra era anche per il pavimento, ma in assenza di lastricatura il calpestìo risultava essere il terreno livellato. Le lastre, a frattura predeterminata, venivano tratte da cave situate nei dintorni del paese, sul versante di La Spezia, i travi in legno per soffitti e solai erano di castagno locale. Al piano terreno generalmente vi era una piccola cantina o una stalla, in grado di accogliere una o due pecore; ad un livello di altezza intermedio vi era una specie di soppalco non abitabile (stredo), in esso venivano alloggiate le ceste, le paniere, gli attrezzi da lavoro, il fieno per le bestie, i tralci recisi delle viti (sarmente) ed altro; nel periodo della vendemmia veniva utilizzato per stendervi l’uva vendemmiata, posta a seccare per poi produrre il vino “rinforzato”. Al piano terreno nella parete contro monte, veniva ricavata tramite scavo manuale, una nicchia di dimensioni variabili (cambeoto), ove si metteva il vino, in fiaschi o bottiglie, per mantenerlo fresco. Sopra allo stredo, se il casotto era a due piani, vi era un tavolato calpestabile a mo di solaio (soao), il piano superiore così poteva essere abitato, vi si accedeva da un altro ingresso indipendente, realizzato in guisa di quello già descritto. Per usufruire dell’altro accesso si doveva salire sul terrazzamento a livello più alto, tramite una serie di gradini di pietra arenaria incastonati a sbalzo nel muro a secco perimetrale esterno. Il vano corrispondente al piano superiore comprendeva una stanza in cui erano disposte alcune sedie, altre povere cose, un tavolo ed un grosso giaciglio (saccon) su cui si coricava per riposare. Il saccon consisteva in un involucro esterno di tela, di tipo iuta, riempito di paglia di grano proveniente dalla battitura del frumento. Manufatti di più grande metratura e volume, sviluppati su due piani, erano adibiti per vere e proprie fisse dimore ove i contadini vivevano, nelle zone del Persico (Persego) e del Navone (Navon), cioè molto vicini al mare; si trattava di abitazioni con più stanze di piccola metratura, bassi soffitti, simili a quelle del borgo, dotate di piccole finestre incorniciate con pietra arenaria, cisterne per la raccolta dell’acqua piovana, caminetti, o luoghi ove si cucinava a legna, al piano terreno in area più fresca, le cantine o le stalle. Il vignaiolo che viveva in quelle zone tutto l’anno era avvantaggiato rispetto ai contadini del paese, avendo i vigneti e oliveti da coltivare più vicini alla residenza, ma aveva il problema della difficoltà di raggiungere il paese. Il vino prodotto, anche in grande quantità veniva in parte venduto: bisogna ricordare che in quei tempi il territorio era completamente coltivato, i terrazzamenti non erano così devastati o inghiottiti dalle frane come ai giorni nostri, si stendevano uniformemente su tutta la costa fino ad essere lambiti dal mare, fornendo un vino di grandissimo valore e pregio, soprattutto bianco ma anche nero, ricercatissimo su tutti i mercati, in special modo il “rinforzato”, tipo di vino passito di alta gradazione alcolica. Il periodo della vendemmia per il borgo era il momento di massima animazione; frotte di persone affollavano in una lunga teoria mobile la scalinata che conduce al mare, molti salivano con una grossa cesta (corba) in spalla, ricolma di uva appena vendemmiata, altri scendevano dopo aver scaricato l’uva nelle cantine in paese. Chi scendeva con la cesta vuota cedeva sempre il passo mettendosi ad un lato della scalinata, salutando; in più aveva sempre una parola di incoraggiamento e sprone per chi procedesse per l’erta china curvo sotto il peso del carico, questa usanza è ancora in voga ai giorni nostri. Ai tempi gli uomini solevano portare in spalla le particolari e caratteristiche ceste “da carbonini” (coffe), cioè grossi contenitori sempre realizzati con scorze di castagno intrecciate, di forma tronco piramidale, sormontate da 4 maniglie (maneghi) per la presa, tali grosse ceste venivano usate anche nel porto di La Spezia per essere riempite di carbone, che a spalla veniva scaricato a terra dalle navi a vapore che attraccavano nel nostro golfo. I portatori d’uva potevano essere i contadini stessi o persone provenienti dal porto mercantile o altri, ossia gente con fisici temprati dalla fatica, che il tipo di esercizio richiedeva: non è cosa agevole portare in spalla un carico di circa 50 chili, attraverso ripide scalinate e sentieri sconnessi, superando durante ogni singolo viaggio un dislivello medio totale di circa 300 metri, ammettendo che l’uva venisse caricata quasi a livello mare. Si consideri che le ceste venivano riempite dal contadino, in genere il produttore, che nella preparazione del carico, a volte con sottile furbizia, stivava nella cesta l’uva pressandola con forza aumentandone così il carico, il portatore interponeva tra cesta e spalla una vecchia giacca, di solito di fustagno, o un sacco di iuta per ammortizzare gli effetti degli spigoli della cesta sulle sue carni. Usando così a lungo ed intensivamente le spalle per portare pesi, si formavano su queste delle callosità, più pronunciate specialmente nella zona posta all’attaccatura del collo, ove si notavano dei veri e propri rigonfiamenti. Nei vigneti la vendemmia era affidata alle donne ed ai bambini, che sparsi nel terrazzamento tagliavano con forbici o coltellini ben affilati i grappoli dai tralci di vite, disponendoli in piccole ceste (corbele o corbelete) o paniere (panéa), quest’ultima risulta essere un tipo di cesta, da donna, con forma quadrata a sponde basse con soli due manici, in quanto la grossa cesta era difficoltosa da manovrare nel campo in mezzo alle varie piante di vigna: stava posizionata e veniva riempita, con vari travasi, in fondo al campo (a pe' de poso) su un muretto (posa) dal quale il portatore (camallo) la prelevava per effettuare il viaggio (viaio) procedendo poi verso la sommità della collina. Portare le ceste così ricolme è un’arte, bisogna essere avvezzi e usi alla fatica, possedere resistenza fisica, fiato, grande forza nella schiena e robuste gambe. Ai giorni d’oggi è cambiata la forma delle ceste (corbe), non sono più così alte: nella parte terminale sono più allargate, questa particolare forma terminale, sagomata verso l’esterno, è studiata per la presa con le due mani durante i viaggi con l’uva stivata, tale aspetto gli conferisce maggiore ergonomicità, inoltre hanno solo due manici che vengono utilizzati esclusivamente per il sollevamento, ed il conseguente trasferimento sulle spalle, al massimo carico il loro peso totale di solito non supera i 40 chilogrammi, ciò a significare che anticamente i vignaioli di Tramonti erano più forti e grandi faticatori. Nel procedere verso l’alto il portatore, per riposarsi, si fermava appoggiando la cesta su un muretto appositamente costruito (posa), lungo i tragitti ve ne sono molti. Durante la sosta era solito dialogare con altri simili che come lui rifiatavano, per riprendere le forze: è infatti problematico parlare mentre si è in cammino, il fiato è corto ed è meglio serbarlo per lo sforzo che si sta compiendo. Dopo pochi minuti riprendeva il cammino fino alla posa successiva, finché non arrivava a destinazione. Per completare una giornata lavorativa, il camallo doveva compiere il percorso dal mare per quattro volte, che si traduceva nell’aver trasportato circa 200 chili di prodotto dai campi alle cantine; a quote più alte i viaggi dovevano essere più numerosi, solo alcuni uomini di fibra eccezionale riuscivano a completare 6 viaggi, da basse quote, nello stesso arco di tempo, per questo venivano ricompensati in maniera più congrua. In aggiunta alla paga giornaliera, al portatore spettava il pranzo completo e vino a volontà, almeno un fiasco. I contadini che vinificavano nelle cantine in basso verso il mare erano certamente avvantaggiati, il trasporto delle uve era meno laborioso, in quanto i tragitti da percorrere erano quasi tutti in discesa o con minimi dislivelli da affrontare. Pure la donna contadina, se giovane ed in forze, era solita portare le uve dentro alla paniera, che di norma a pieno carico non pesava più di 20 chili, il peso veniva caricato sulla testa, disponendo un cercine di iuta (varco) interposto fra la testa e la cesta. Nel passato solo due donne di eccezionale forza, nella storia di Campiglia, sono state in grado di salire con corbe portate a spalla, colme, di grandi dimensioni, come usavano fare gli uomini. Il raccolto portato nelle cantine, veniva rovesciato dentro a grossi contenitori in legno di castagno, detti tini, alti anche più di 2 metri, a forma tronco conica, con la base che di solito era appoggiata su almeno tre grandi massi disposti con un angolo di 120 gradi tra loro, ben squadrati, di pietra arenaria. La sommità, fino ad allora lasciata aperta, di diametro più piccolo della base, veniva chiusa al termine della pigiatura usando delle assi in legno di forma particolare e sagomate, affiancate tra di loro in modo da permettere una perfetta chiusura del tino; solo i più grandi proprietari terrieri li possedevano, di grandi portate, fino a 80 Some (una Soma equivale a 80 litri). Al calar del sole terminata la vendemmia, ma non la giornata, il contadino si dedicava al lavoro di cantina (cantineo), procedendo alla pigiatura dell’uva stivata nel tino; la grande quantità di uva riversata nel tino, di solito lo riempiva quasi a raso, era schiacciata in modo completo ed efficace con un metodo che oggi ci fa sorridere: si denudava rimanendo in mutande o indossava un paio di calzoncini corti, saliva quindi sulla sommità del tino ed in posizione eretta sull’uva vendemmiata, iniziava a camminare sulla stessa. A causa del suo peso e del movimento alternativo delle gambe, poco alla volta affondava in quel misto di grappoli ed acini che mano a mano diventavano una poltiglia: marciava così imperterrito per ore, affondando sempre di più nell’elemento che lo avvolgeva e che ne aumentava lo sforzo fisico. A seconda della profondità del contenitore e dell’uva immessa, si poteva verificare la situazione che a pigiatura terminata il mosto lo ricoprisse fino alla gola; per accelerare la pigiatura, non era infrequente che più di un viticoltore si calasse dentro il tino, operando in maniera analoga. Terminata questa fase si procedeva al posizionamento della copertura, lasciando un orifizio necessario per lo sfiato dei gas di bollitura del mosto. Chi produceva vino in quantità minore, era solito possedere dei fusti, chiamate botti, disposte sdraiate, di forma affusolata, chiuse alle due estremità, che presentavano un’apertura di dimensioni modeste sulla parte più alta, al centro, in cui il mosto schiacciato con i piedi in altri e diversi contenitori (tinei), veniva rovesciato all’interno: una volta piena la botte si attendeva che anche in questo caso terminasse la bollitura. Gli antichi campigliesi vinificavano con una tecnica particolare, assolutamente naturale, rimasta immutata nei secoli, fino ai giorni nostri. Qualche piccola modifica è stata apportata, ma sostanzialmente il principio è rimasto lo stesso, metodi e tempi sono stati mantenuti. Al giorno d’oggi in Francia, paese con zone notoriamente dedite alla coltivazione della vite, alcuni produttori hanno ripreso le naturali ed antiche tecniche per vinificare, producendo modeste quantità di vino mettendo in pratica i metodi antichissimi. Da ciò ne è scaturito un prodotto di nicchia, ricercatissimo da intenditori e degustatori: è ovvio che il prezzo finale risulti adeguato, di alta fascia. Provate a chiedere oggi ad un enologo, le metodologie per vinificare, le attrezzature e gli ingredienti che vengono usati nelle supertecnologiche attuali cantine diventate simili a moderni ed asettici laboratori chimici. Il contadino campigliese terminata la pigiatura, allora rigorosamente con i piedi (oggi per lo scopo si usano macchine, sia manuali che motorizzate), riversava il mosto nelle botti con l’inclusione delle bucce ed il raspo, dato che questo particolare metodo non contemplava la diraspatura; con questa tecnica il vino si schiariva più velocemente ed in maniera naturale. La bollitura solitamente si prolungava per una decina di giorni: per intenderci la vera e prorompente bollitura era quella in grado di espellere il tappo. Terminato questo fenomeno fisico-chimico, i vasi o fusti, così comunemente detti tini e botti, venivano quindi sigillati con tappi di sughero in modo da non fare entrare aria all’interno. In precedenza, tutte le varie piccole fessure che le botti in legno potevano presentare, erano state rese stagne con spalmature a forza, di grasso di bue (sevo), preventivamente pestato con cura e mescolato con una piccola quantità di polvere di zolfo, per renderlo più morbido e plasmabile. Lo zolfo serviva solamente per rendere il grasso di animale meno appetibile per i piccoli topi (ratti) che solitamente giravano per le cantine. Tale pratica trova impiego anche ai giorni nostri. I fusti rimanevano così sigillati: questa particolare tecnica viene indicata come metodo “a botte chiusa”. Si proseguiva così fino a novembre ed esattamente al giorno 11, ove cade la ricorrenza di San Martino (Fin San Martin, leva e meta er vin). Da quel giorno, con il sopraggiungere della luna vecchia (luna vecia), si poteva procedere a travasare (mudae) il vino. Il travaso veniva effettuato in botti di legno più piccole o damigiane, in tali contenitori preventivamente preparati, veniva bruciato dello zolfo che partendo da quello in polvere acquistato in negozio, veniva fuso dal calore, posto in una pentola sul fuoco, con lo scopo finale di conservare nel tempo il vino. A questo punto venivano tagliate delle strisce di carta, lunghe 50 centimetri, di una particolare carta dei tempi (papeo matto), grezza, porosa, molto robusta. Ad una ad una le strisce di carta venivano immerse nello zolfo (sorfe) liquido, si impregnavano a fondo, dopodiché la carta così modificata (trappa de sorfe) veniva arrotolata su se stessa, e le veniva dato fuoco con un fiammifero (furminante o bricheto) tenendola legata ed appesa ad un pezzo di filo di ferro (filon). Veniva allo scopo introdotta nella botte, che era poi sigillata con un tappo di sughero, e lì lasciata bruciare a lungo in modo da saturarne l’ambiente. La stessa prassi veniva adottata con le damigiane (ramisane), contenitori in vetro da circa 54 litri di capienza, rivestite con vimini intrecciati (vesta). Pratica comune suggeriva di immettere prima nella damigiana qualche litro di vino, a scopo precauzionale, poiché durante la combustione poteva cadere sul fondo di vetro qualche goccia di zolfo incandescente che avrebbe potuto causare la rottura del contenitore. Alle damigiane riempite di vino, ad una ad una, veniva posto alla sommità dell’olio, per evitare ossidazioni. Riempite le botti o caratelli (caratei), le stesse venivano nuovamente sigillate con tappi di sughero. Il raspo (rappo) e quel che rimaneva delle bucce, dopo la totale spillatura del nuovo vino, veniva immesso in un torchio di costruzione artigianale dotato di pesante base in arenaria, madrevite verticale a volte in legno, più spesso in acciaio. L’accurata torchiatura che ne seguiva dava origine ad un prodotto che prende il nome di strizzo (strensaia), di qualità leggermente inferiore al vino spillato in precedenza. I produttori più poveri, recuperavano il prodotto solido della torchiatura, e lo rimettevano dentro ad una botte aggiungendo una proporzionale quantità di acqua. Mettevano nuovamente il tappo alla botte e lasciavano bollire il tutto. Dopo qualche tempo spillavano, ottenendo un vino molto leggero (vinetta), che veniva bevuto in famiglia, mentre quello di qualità migliore era posto sul mercato. Anche i produttori più ricchi usavano produrre questo tipo di vino a più bassa gradazione, procedevano però in maniera diversa: invece di torchiare il raspo, lo immettevano direttamente nella botte con aggiunta di acqua, spillando poi un prodotto che risultava superiore a quello ottenuto dal precedente metodo. Il vino uscito dalla spillatura dei tini, veniva chiamato “di botte” (vin de bote), con una gradazione alcolica oscillante dagli 11 ai 13 gradi a seconda delle annate. Questa qualità di vino era molto richiesta sul mercato, ma ancor di più i clienti desideravano il vino eccelso, e cioè il rinforzato che veniva prodotto sia bianco che nero. Il rinforzato (comunemente detto Sciacchetrà nella zona delle 5 Terre, area omogenea a quella di Tramonti, e con tale denominazione internazionalmente conosciuto) deriva da uve particolari, la maggiore scelta ricadeva su quella cosiddetta Bosco e sulla Trebbiana Nostrale che una volta vendemmiate, venivano lasciate essiccare al sole per almeno due settimane. Le uve erano ben stese sui tetti dei casotti o in alternativa sui muretti a piede del poggio, in caso di minaccia di pioggia venivano ricoverate all’interno dei casotti e poste sullo stredo. Con tale procedimento l’uva perdeva molta della parte acquosa a vantaggio di quella zuccherina, che poi si trasformava in alcool, quindi i grappoli venivano sgranati a mano, gli acini pigiati con i piedi ed il mosto travasato nelle botti di ridotte dimensioni data la limitata quantità prodotta. I più grandi vignaioli erano soliti produrne da 200 a 400 litri all’anno. I mesi da luglio a settembre, per il contadino erano periodi che non richiedevano tempi e cure particolari per le coltivazioni della vigna, per cui egli si dedicava a diverse altre attività, con lo scopo finale di integrare i propri guadagni. Prima di tutto, se era buon produttore di vino, lo vendeva a commercianti che provvedevano a ritirare il prezioso liquido trasportandolo via mare, dato che a quei tempi il paese non era ancora servito da strada carrozzabile. Tali commercianti affidavano il trasporto a barconi in legno (vinaccei) armati a vela che con mare calmo accostavano alla marina, purtroppo sfornita di attracchi adeguati. Il carico del vino veniva eseguito, tra notevoli difficoltà con barili (baisei), tipi di botticelle in legno contenenti il vino con un peso totale di 40 chili, trasportati a spalla dalle cantine attraverso ripide scalinate e sentieri. Accanto alla coltivazione della vite, seppur in misura minore, veniva condotta anche quella dell’olivo (oivo). In paese esistevano tre frantoi oleari, molto artigianali, a cui i contadini portavano il raccolto. Frangere significa letteralmente rompere, in questa fase la polpa ed i noccioli delle olive vengono lacerati a fondo attraverso l’energico trattamento eseguito con la macina. Le macine (masene) per frantumare le olive (oive) erano di forma cilindrica in pietra arenaria locale scalpellinata, con foro centrale a sezione quadra in cui venivano calettati gli assi, costruiti con legno di leccio (lissa) o di castagno. Anche la base era in pietra arenaria di forma circolare: per evitare la fuoriuscita della poltiglia, veniva creato tutt’attorno, un bordo rialzato, formato da pietre in arenaria sagomate a forma trapezoidale posizionate a coronamento, incastrate le une con le altre. Il prodotto così ottenuto veniva poi trasferito in un torchio formato da una base in arenaria, sempre di forma piana e circolare, con scanalatura a bassofondo, rialzata dal suolo per mezzo di blocchi del solito materiale, e da un asse verticale in legno, di solito di leccio o di olivo, calettato sul foro centrale della base, con la struttura a vite, con profilo triangolare, scolpita a mano. Tramite un accoppiamento meccanico mobile con madrevite, sempre realizzata con gli stessi materiali e costruita in due pezzi componibili a guscio, si effettuava la pressatura della poltiglia, traendone l’olio (eio): le operazioni erano eseguite con la sola forza delle braccia. Solo agli inizi del ‘900 le parti in legno furono sostituite da metallo, più resistente e durevole. Tutto il versante a mare, Tramonti, è ricchissimo di pietra arenaria, composto molto duro e resistente all’abrasione e di grande stabilità nel tempo, anche alle basse temperature. Molte città dell’Italia e della Francia, la utilizzavano per lastricare le strade ed i marciapiedi, era quindi molto richiesta sul mercato, ed in special modo grazie alla buona qualità, quella dei territori di Campiglia e di Biassa, ove erano state aperte molte cave da cui si traevano grandi quantità di pietra. Il contadino campigliese, sempre nel periodo estivo sopraddetto, si dedicava alla modellazione di blocchi della pietra (tacchi), usando con sapienza semplici attrezzi: per spaccare i grossi massi particolari cunei (punciotti), per modellare i manufatti passava quindi all’uso di scalpello sagomato a taglio (scarpeo) o a punta (agoccia). La pietra veniva tratta principalmente da una grande cava naturale in forte pendenza, zona Fosso del Checco, che partiva da quota molto alta e con forte acclività proseguiva fin sulla spiaggia. Il contadino, dall’alto selezionava i massi più utili e adatti per ricavare il prodotto finito; non essendoci nessun mezzo di trasporto per trasferirli alla marina, li faceva rotolare, facendoli franare lungo quella grande scarpata. Al termine del lavoro di squadratura uscivano dei blocchi del peso di circa quaranta chili, che venivano preparati in gran numero, accumulati sulla spiaggia in attesa del veliero, con vela latina, che li avrebbe caricati e quindi trasportati altrove. Quella grande catasta posta sulla battigia, in gergo prendeva il nome “a barcà”, costituiva l’intero carico per il veliero. E’ storia vera che prima dell’inizio dello scorso secolo, un contadino con il proprio figlio, appena ventenne, avessero preparato un carico di massi già squadrati e pronti all’imbarco; un giorno d’autunno, si alzò un forte vento che divenne talmente impetuoso che ancora oggi si ricorda che fece rintoccare le campane del campanile del paese, il mare cominciò ad ingrossare divenendo burrascoso, onde sempre crescenti si abbattevano sulla costa e sui massi, pazientemente lì accatastati: dalla sua abitazione che si affacciava sulla spiaggia, il padre vedeva le onde che minacciavano di portare via o di sparpagliare i blocchi già pronti, a causa della forte risacca provocata dai cavalloni, trascinandoli al largo ove era poi impossibile recuperarli dato l’alto fondale. I due si precipitarono sulla spiaggia con l’intento di mettere in salvo il loro lavoro, purtroppo un’onda più alta delle altre ghermì il figliolo, trascinandolo sott’acqua, sbattendolo con violenza contro i massi. Il corpo del poveretto non fu mai più ritrovato, l’unico resto poi recuperato fu uno scarpone a lui appartenuto. Avendo imparato già dall’età infantile la tecnica di spaccare i sassi, un certo numero di campigliesi, emigrarono in Francia allettati dal guadagno certo derivato dal lavoro in quel particolare settore, che al di là delle Alpi era molto ricercato, chiamando in seguito parenti e paesani; ne seguì un piccolo esodo verso quei luoghi, nella zona della Provenza e precisamente a La Ciotat, nei pressi della città di Marsiglia, ove i Canese e gli Sturlese fondarono una piccola comunità tutt’ora esistente. Qualcuno tentò di far fortuna, o perlomeno di uscire da quella vita fatta di duro lavoro e non sufficientemente remunerativa per tutti, imbarcandosi come mozzo su navi mercantili, altri più esperti e professionalmente più preparati, intrapresero la via del mare sottoponendosi alle selezioni per navigare su transatlantici in qualità di personale addetto ai servizi: cameriere o ragazzo di camera. Alle prime armi con le lingue estere, furono destinati su navi che facevano tragitti verso il Sud America, data la somiglianza della lingua italiana con quella spagnola: uno di loro, tale Sturlese, si stabilì a Valparaiso, in Cile, dopo averlo interamente attraversato; non si hanno notizie di paesani che navigarono con transatlantici o vapori su rotte del Nord America. Solcando i mari a quelle latitudini, si narra che uno di loro, al ritorno da un viaggio, portò con sé alcune piante di sughero che mise a dimora nella costa sovrastante la zona di Schiara. Agli inizi del 1900 un paesano, della stirpe dei Canese, emigrò in Sudamerica e precisamente nel Paraguay, ove ancora oggi esiste una piccola comunità di suoi discendenti assommante ad 80 anime, che portano quel cognome. Nel dopoguerra (anni ’50), dopo decine di anni di lavoro in Francia, qualche campigliese, pochissimi in verità, tornò al paese natìo, per godersi la meritata pensione, portando con sé una curiosa parlata (patois) fatta di francesismi, frammisti al nostro dialetto, che non aveva di certo dimenticato. Il compito del vignaiolo coinvolgeva anche altre discipline lavorative: per costruire i filari, che sostengono la vite, si usano pali di legno di castagno (forchete), per le proprietà intrinseche di durata nel tempo che questo legno presenta. | |
Era quindi necessario che il contadino proprietario di boschi, tagliasse nel periodo opportuno giovani piante che gli servivano allo scopo. Le stesse venivano poi sapientemente trattate, per allungarne la durata, prima dell’utilizzo finale. Questa attività di taglio, sempre esercitata a mano, lo trasformava quindi in boscaiolo esperto di legni e periodi di abbattimento degli alberi, trattamento di questi e stagionatura: naturalmente la legna, meno nobile del castagno, veniva tagliata per essere poi bruciata nei caminetti domestici oppure preparata in cataste per eventuale vendita ad altri. Con gli alberi di castagno più grossi venivano realizzati travi per solai e particolari pezzi sagomati (doghe) usati per costruire le botti. Costruire le botti di qualsiasi forma e dimensione, sempre rigorosamente a mano, è un’arte sopraffina. A Campiglia vi era un maestro (maistro) capostipite, famoso in tutta l’area di Tramonti che ha allevato sul campo il figlio, che a sua volta ha tramandato il mestiere al proprio figlio, creando una catena di artigiani del settore, perpetuatasi per tre generazioni. Il bottaio con i suoi ferri del mestiere necessari girava, da primavera al periodo di vendemmia, per tutte le cantine: i clienti gli fornivano doghe ed i vari cerchi di acciaio adatti per realizzare i fusti delle dimensioni richieste. Egli, partendo dalle doghe in castagno, appena sbozzate, con la sua straordinaria manualità costruiva direttamente dentro le cantine le varie botti e tini anche di grosse dimensioni, capaci di contenere diverse migliaia di litri di vino. Riesce difficile oggi pensare che il bottaio di Campiglia, con pochissimi, ma essenziali attrezzi, riuscisse a realizzare botti al di fuori del suo comodo ed attrezzato laboratorio di falegname. Egli si trasferiva a piedi, con la cassa contenente gli arnesi che in sostanza consistevano in: pialla (ciona), pialletto (cioneto), pialletto mezzotondo (barcheta), sponderuola (spondaea), vari scalpelli (scarpei), anche di sagoma mezza tonda (ungeta), ascia da carpentiere (sgorbia), mazzuoli (massei) di legno, graffietto per tracciare (truschin). In paese non esisteva un acquedotto per l’acqua potabile, non esistevano i servizi igienici all’interno dell' abitazione, normalmente negli orti vicino alla casa venivano costruite delle cabine realizzate con tavole di legno o paglia (stuppio, così era chiamato il gambo del grano), provviste di copertura per la pioggia. Tali manufatti servivano per i bisogni corporali. Le famiglie più agiate potevano contare, installato nella camera da letto, in un piccolo mobile (grindon) che conteneva un vaso di terracotta smaltata, usato per lo scopo. Veniva poi successivamente svuotato. Non tutti i fabbricati erano dotati di cisterna (susterna) grosso manufatto a tenuta stagna, per la raccolta dell’acqua piovana dal tetto, che si utilizzava anche per le faccende domestiche. Per lavare i panni sporchi molte donne si recavano, soprattutto d’inverno, nei boschi vicini all’abitato, ove si formavano dei piccoli rigagnoli o ristagni d’acqua, a causa delle piogge, risparmiando così l’acqua delle cisterne. Se la piovosità era scarsa e la famiglia numerosa, l’acqua nella bella stagione poteva non bastare e quindi le donne di famiglia per lavare panni e lenzuola dovevano recarsi laggiù al mare (maìna), nella località Persico, ove sgorgava copiosa una sorgente d’acqua dolce. Al mattino presto caricati tutti i panni (drapi) da lavare in una grossa cesta, bambini al seguito, scendeva fin laggiù sulla spiaggia e procedeva al lavaggio delle lenzuola (bugà), che venivano poi stese sulle rocce ad asciugare al sole. Per il bucato veniva usata la cenere. Se i bambini non erano ancora in grado di nuotare o di galleggiare, la madre provvedeva a legarli con una corda sotto le ascelle e li calava in mare, tenendo in mano l’altro capo della fune; il bimbo o la bimba cominciavano così a prendere familiarità con l’elemento ed in caso di pericolo venivano subito tirati a riva. Con questo metodo molti hanno imparato a stare a galla, a familiarizzare con l’acqua, divenendo in seguito dei provetti nuotatori ed apneisti come normalmente tutti i campigliesi sono sempre stati. Passata la prima paura, i bimbi dovevano imparare a nuotare, era un vero divertimento e una sfida: per loro il modo di dimostrare a sé stessi e agli altri, che avevano imparato bene, era quello di arrivare a sedersi su uno scoglio, non molto distante da riva, ove il fondale tocca i 2 metri. Tale scoglio è chiamato, data la sua forma affiorante sull’acqua, Scoglio dell’Asino (Scoio dell’Ase): chi avesse cavalcato quell’Asino sicuramente non era alle prime armi: vi sono inoltre nella zona del Persico e del Navone altri grossi scogli di forme diverse, e tutti hanno il loro nome o nomignolo, derivante dalla loro sagoma, appioppato dai campigliesi da lustri. Il contadino era anche molto esperto nell’arte della pesca, nei momenti di lavoro nell’area della marina, integrava il tempo dedicato allo spaccare i sassi, con la pesca soprattutto al polpo, molto comune in quelle zone. Anche le contadine erano solite pescare i polpi (porpi) con una tecnica curiosa. Dato il gran numero di esemplari presenti alla marina, era sufficiente che la donna si sedesse su uno scoglio e lasciasse le sue gambe immerse nell’acqua. A causa del bianco colore delle gambe i polpi erano attratti e si attorcigliavano a queste ritenendo che fossero una preda. Con estrema velocità le contadine, con le mani afferravano i polpi catturandoli. Il campigliese usava tecnica diversa: in riva al mare, lungo la spiaggia (ciasa) costituita da grossa ghiaia (giaon), preparava una specie di vasca (bozo) delimitata con sassi, in cui immetteva del cibo appetibile (brumeso) per il polpo: l’attesa non era vana, di solito dopo poco si presentava una preda, anche di grosse dimensioni. Così il campigliese, pronto e attento con la sua fiocina (fussena), la scagliava con velocità e precisione catturando il mollusco, e così di seguito: se aveva fortuna si poteva verificare che il polpo che sopraggiungeva, fosse seguito da una murena, che notoriamente gli dà la caccia ed è ghiotta delle sue carni. Egli, con la sua perizia, poteva così catturare facilmente due prede in una sola volta. | Era quindi necessario che il contadino proprietario di boschi, tagliasse nel periodo opportuno giovani piante che gli servivano allo scopo. Le stesse venivano poi sapientemente trattate, per allungarne la durata, prima dell’utilizzo finale. Questa attività di taglio, sempre esercitata a mano, lo trasformava quindi in boscaiolo esperto di legni e periodi di abbattimento degli alberi, trattamento di questi e stagionatura: naturalmente la legna, meno nobile del castagno, veniva tagliata per essere poi bruciata nei caminetti domestici oppure preparata in cataste per eventuale vendita ad altri. Con gli alberi di castagno più grossi venivano realizzati travi per solai e particolari pezzi sagomati (doghe) usati per costruire le botti. Costruire le botti di qualsiasi forma e dimensione, sempre rigorosamente a mano, è un’arte sopraffina. A Campiglia vi era un maestro (maistro) capostipite, famoso in tutta l’area di Tramonti che ha allevato sul campo il figlio, che a sua volta ha tramandato il mestiere al proprio figlio, creando una catena di artigiani del settore, perpetuatasi per tre generazioni. Il bottaio con i suoi ferri del mestiere necessari girava, da primavera al periodo di vendemmia, per tutte le cantine: i clienti gli fornivano doghe ed i vari cerchi di acciaio adatti per realizzare i fusti delle dimensioni richieste. Egli, partendo dalle doghe in castagno, appena sbozzate, con la sua straordinaria manualità costruiva direttamente dentro le cantine le varie botti e tini anche di grosse dimensioni, capaci di contenere diverse migliaia di litri di vino. Riesce difficile oggi pensare che il bottaio di Campiglia, con pochissimi, ma essenziali attrezzi, riuscisse a realizzare botti al di fuori del suo comodo ed attrezzato laboratorio di falegname. Egli si trasferiva a piedi, con la cassa contenente gli arnesi che in sostanza consistevano in: pialla (ciona), pialletto (cioneto), pialletto mezzotondo (barcheta), sponderuola (spondaea), vari scalpelli (scarpei), anche di sagoma mezza tonda (ungeta), ascia da carpentiere (sgorbia), mazzuoli (massei) di legno, graffietto per tracciare (truschin). In paese non esisteva un acquedotto per l’acqua potabile, non esistevano i servizi igienici all’interno dell' abitazione, normalmente negli orti vicino alla casa venivano costruite delle cabine realizzate con tavole di legno o paglia (stuppio, così era chiamato il gambo del grano), provviste di copertura per la pioggia. Tali manufatti servivano per i bisogni corporali. Le famiglie più agiate potevano contare, installato nella camera da letto, in un piccolo mobile (grindon) che conteneva un vaso di terracotta smaltata, usato per lo scopo. Veniva poi successivamente svuotato. Non tutti i fabbricati erano dotati di cisterna (susterna) grosso manufatto a tenuta stagna, per la raccolta dell’acqua piovana dal tetto, che si utilizzava anche per le faccende domestiche. Per lavare i panni sporchi molte donne si recavano, soprattutto d’inverno, nei boschi vicini all’abitato, ove si formavano dei piccoli rigagnoli o ristagni d’acqua, a causa delle piogge, risparmiando così l’acqua delle cisterne. Se la piovosità era scarsa e la famiglia numerosa, l’acqua nella bella stagione poteva non bastare e quindi le donne di famiglia per lavare panni e lenzuola dovevano recarsi laggiù al mare (maìna), nella località Persico, ove sgorgava copiosa una sorgente d’acqua dolce. Al mattino presto caricati tutti i panni (drapi) da lavare in una grossa cesta, bambini al seguito, scendeva fin laggiù sulla spiaggia e procedeva al lavaggio delle lenzuola (bugà), che venivano poi stese sulle rocce ad asciugare al sole. Per il bucato veniva usata la cenere. Se i bambini non erano ancora in grado di nuotare o di galleggiare, la madre provvedeva a legarli con una corda sotto le ascelle e li calava in mare, tenendo in mano l’altro capo della fune; il bimbo o la bimba cominciavano così a prendere familiarità con l’elemento ed in caso di pericolo venivano subito tirati a riva. Con questo metodo molti hanno imparato a stare a galla, a familiarizzare con l’acqua, divenendo in seguito dei provetti nuotatori ed apneisti come normalmente tutti i campigliesi sono sempre stati. Passata la prima paura, i bimbi dovevano imparare a nuotare, era un vero divertimento e una sfida: per loro il modo di dimostrare a sé stessi e agli altri, che avevano imparato bene, era quello di arrivare a sedersi su uno scoglio, non molto distante da riva, ove il fondale tocca i 2 metri. Tale scoglio è chiamato, data la sua forma affiorante sull’acqua, Scoglio dell’Asino (Scoio dell’Ase): chi avesse cavalcato quell’Asino sicuramente non era alle prime armi: vi sono inoltre nella zona del Persico e del Navone altri grossi scogli di forme diverse, e tutti hanno il loro nome o nomignolo, derivante dalla loro sagoma, appioppato dai campigliesi da lustri. Il contadino era anche molto esperto nell’arte della pesca, nei momenti di lavoro nell’area della marina, integrava il tempo dedicato allo spaccare i sassi, con la pesca soprattutto al polpo, molto comune in quelle zone. Anche le contadine erano solite pescare i polpi (porpi) con una tecnica curiosa. Dato il gran numero di esemplari presenti alla marina, era sufficiente che la donna si sedesse su uno scoglio e lasciasse le sue gambe immerse nell’acqua. A causa del bianco colore delle gambe i polpi erano attratti e si attorcigliavano a queste ritenendo che fossero una preda. Con estrema velocità le contadine, con le mani afferravano i polpi catturandoli. Il campigliese usava tecnica diversa: in riva al mare, lungo la spiaggia (ciasa) costituita da grossa ghiaia (giaon), preparava una specie di vasca (bozo) delimitata con sassi, in cui immetteva del cibo appetibile (brumeso) per il polpo: l’attesa non era vana, di solito dopo poco si presentava una preda, anche di grosse dimensioni. Così il campigliese, pronto e attento con la sua fiocina (fussena), la scagliava con velocità e precisione catturando il mollusco, e così di seguito: se aveva fortuna si poteva verificare che il polpo che sopraggiungeva, fosse seguito da una murena, che notoriamente gli dà la caccia ed è ghiotta delle sue carni. Egli, con la sua perizia, poteva così catturare facilmente due prede in una sola volta. | ||
Versione delle 15:14, 14 lug 2011
CAMPIGLIA
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In Dialetto: | Campìa |
Nazione: | |
Regione: | |
Provincia: | |
Comune: | La Spezia |
Coordinate: | La Spezia |
Altitudine: | 44°04′26″N 9°47′45″E |
Google Maps: | 389 mt s.l.m. |
Dialetti: | http://tinyurl.com/6erhspk |
Abitanti: | 116 |
Densità: | |
Frazioni: | |
CAP: | |
Patrono: | |
Ricorrenza: | |
Eventi: | |
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Aneddoti, piccole storie di vita e del lavoro contadino d’altri tempi
di Piero Lorenzelli
E’ interessante conoscere, ai fini storici e di costume, come vivessero nel borgo i nostri antenati Campigliesi, durante il periodo 1850/1930. A questo proposito abbiamo scritti e testimonianze di quell’epoca provenienti: dalla consultazione dell’Archivio parrocchiale (redatto a partire dal 1740), dal testo pubblicato nel Maggio del 1907 dall’antropologo Sittoni intitolato “I viticoltori di Tramonti”, che descrisse così bene lo spaccato di usi e costumi degli abitanti dei paesi di Biassa e Campiglia, ciò che li accomunava e ciò che li divideva, fino alla più diretta testimonianza di storia tramandata oralmente dai genitori ai loro figli, e così via sino ai giorni nostri. Per Campiglia, l’anno 1930 ha rappresentato il periodo di massimo splendore, la sua popolazione contava allora 470 anime, ed era andata fino a quel tempo sempre in crescendo. E' da rimarcare una particolarità: gli abitanti del paese rispondevano a due soli cognomi, Sturlese, in maggioranza, e Canese. La comunità contadina ebbe poi da quella data una lenta ma continua regressione, causata soprattutto dalla comparsa di un piccolo insetto proveniente dalla Francia, un afide, chiamato filossera, che attaccò in misura devastante, distruggendo le prosperose viti che erano state la principale forma di sostentamento della popolazione locale. Da allora è iniziato un lento ma consistente esodo dei residenti del paese verso altri lidi alla ricerca di una migliore forma di vita e sopravvivenza. Consultando gli antichi libri che si trovano in Parrocchia si riscontra come, fino agli inizi del ‘900, un certo numero di Campigliesi fosse analfabeta, prova ne sia che nel registro delle nascite ove era richiesta la firma per esteso del capofamiglia, molti di loro apponevano la croce. Nel passato però il paese ha dato anche i natali a figli che si sono distinti nella vita sociale e politica della comunità. Uno degli antenati campigliesi più rappresentativi è stato Canese Michele, nato agli albori dell’800. Egli ebbe molti incarichi nell’ambito politico locale; fu infatti il primo consigliere eletto a Campiglia chiamato a sedersi fra i membri del consiglio comunale di Spezia: Campiglia era parte integrante del circondario e comune di Spezia, con Genova allora capoluogo della provincia. Fu eletto nel consiglio in base alla nuova legge allora varata, che permise le elezioni con scrutinio separato nelle frazioni rispetto al comune capoluogo. Tra le sue gesta si ricorda che ebbe il privilegio nel 1853 di accompagnare per mano il principe di Casa Savoia Umberto I, allora bimbo di 9 anni, diventato in seguito Re d’Italia, in visita a Campiglia e luoghi limitrofi, proveniente dall’albergo Croce di Malta di Spezia (ai tempi il nome della città veniva indicato senza l’articolo determinativo che ha oggi). Nel 1865 durante la costruzione dell’Arsenale Militare ebbe un encomio scritto dal Generale Domenico Chiodo progettista della grande struttura. Nella motivazione viene ricordato il supporto del Canese per la fornitura di pietre scalpellinate, tratte dalle cave della zona e modellate a mano da specialisti del settore, tutti campigliesi. Un campigliese, questa volta di adozione, tale Carro Pietro di Francesco nato a Spezia il 29 Giugno del 1850 passa senz’altro alla storia del piccolo borgo collinare, per altre motivazioni che vedremo in seguito. Il 5 Maggio del 1877 viene assunto con la qualifica di “operaio di marina” presso l’Arsenale Militare di Spezia: nel 1879 incontra la sua anima gemella a Campiglia, con lei si sposa e si trasferisce ad abitare in paese. Ogni giorno, per innumerevoli anni, fino alla sua pensione, datata 6 Agosto 1908, egli al mattino presto si reca al lavoro laggiù nello stabilimento militare percorrendo la mulattiera, formata da 2050 scalini, a cui vanno aggiunti almeno 3 Km. di viottoli appena tracciati e sconnessi per quell’epoca. Alla sera deve percorrere a ritroso la solita strada che come si ricorderà si inerpica sino a raggiungere un’altitudine di 400 metri, incurante delle varie condizioni metereologiche che troverà. Al termine del suo rapporto di lavoro, perpetuatosi per 31 anni, può godere di una pensione di “diritto” per anzianità di servizio. Al momento della cessazione del rapporto di lavoro la sua paga giornaliera ammontava a Lire 3.50. La Corte dei Conti dell’epoca gli liquida quindi una pensione di lire 630. Certamente il nostro antenato Carro Pietro, amava ed era legato moltissimo alla sua sposa, per essersi sottoposto per anni ad una vita così dura, fatta di lavoro e di spostamenti: probabilmente anche il vivere a Campiglia gli piaceva. I genitori crescevano i figli, e fin dalla più tenera età insegnavano loro come diventare dei provetti contadini dediti alla coltivazione della vite ed in generale alla cura dei campi, disposti su terrazzamenti (canti o fasse), ove anticamente i principali strumenti di lavoro per movimentare la terra erano: la picchetta (picheta) tipo di zappa molto stretta e ricurva e la zappetta (sapeta) attrezzo a forma di foglia ricurva con punta; più recentemente questi attrezzi si sono evoluti nella forma dando luogo a: la zappa (pigon), maggiormente usata per lavorare i terreni seminativi e il bifolco (biforco), particolare attrezzo con corto manico e due rebbi ricurvi, esclusivamente usato nei vigneti. La vanga in queste zone non ha mai trovato utilizzo, specialmente nei vigneti, data la particolare disposizione di filari (paede) e a maggior ragione nei pergolati (autedi), ove è impossibile farne uso. E’ notorio però che l’uso della zappa e del bifolco sia molto più faticoso di quello della vanga, ma il vignaiolo, con giuste motivazioni, è ormai abituato da secoli a lavorare curvo, quasi con la faccia a livello del terreno, con questi due attrezzi ormai idealmente divenuti i prolungamenti naturali delle braccia. I Campigliesi, dediti così alla cura dei campi, trascuravano gli studi e la scuola: solo intorno agli inizi del ’900 vennero istituite a Campiglia le elementari, si trattava dei primi tre anni di corsi gestiti da una sola maestra, chi aveva le possibilità economiche, poteva concedersi di distogliere l’aiuto di un figlio, anche in tenera età, dal lavoro dei campi: il bambino poteva così, avendone le capacità, frequentare le elementari: doveva allora giornalmente scendere a piedi fino a Marola lungo la mulattiera, e relativo viaggio di ritorno. Tra i paesani che ebbero la possibilità di intraprendere con successo gli studi vi fu Gio Batta Sturlese, nato nel lontano 1777 e mandato dal padre Gaspare in seminario a Sarzana. Il ragazzo divenne, nel 1803, cappellano della Chiesa di Santa Caterina in Campiglia, dove rimase sino al 1804. La chiesa di Campiglia era ancora dipendente dalla Chiesa di San Martino di Biassa, non poteva vantare propri territori e confini precisi. Nell’anno 1839 in paese fu costituita la prima fabbriceria parrocchiale; don Gio Batta fu richiamato, risultando quindi il primo parroco rettore della parrocchia divenuta definitivamente autonoma da quell’anno. Rimase in carica fino alla sua morte, a 80 anni, nel 1857 e fu tumulato nel deposito dei parroci, luogo che ancora oggi è indicato e visibile, al centro del presbiterio della chiesa. Le famiglie erano di solito numerose, 8 o 9 figli non erano infrequenti: vivevano tutti insieme sotto lo stesso tetto, fino al giorno delle nozze, i figli erano considerati una risorsa, braccia per il lavoro nei campi. Le donne avevano un compito molto importante nell’ambito e nell’organizzazione della famiglia contadina: in tenera età veniva loro insegnato a cucinare e preparare i pasti, che spesso dovevano essere portati lontano, ai genitori partiti all’alba e affaccendati nel lavoro dei campi fino al tramonto; in assenza della madre, la più grandicella aveva la responsabilità di seguire i fratelli più piccoli, di accudire (nudrigae) gli animali da cortile, condurre al pascolo pecore e capre. Diventate giovanette imparavano l’arte del cucito e della maglia, ai ferri e all’uncinetto, compresa la filatura della lana grezza, erano quindi pronte per il matrimonio, e si potevano formare così nuovi nuclei famigliari. Molti coloni campigliesi possedevano due o più pecore utilizzate per fornire lana, latte e prodotti derivati formaggio (formaiete) e principalmente ricotta (recotu). La tosatura delle pecore si svolgeva in primavera inoltrata, nei giorni di pieno sole, solitamente in aie o nella grande area di Piazza della Chiesa, ove gli animali venivano condotti, e manualmente le donne procedevano, fra vociare e belati vari, alla raccolta della lana. La stessa dopo opportuno lavaggio, depurata dalle varie intrusioni, era pronta per costituire l’imbottitura di materassi da letto o per essere filata: le mani esperte delle campigliesi, per mezzo di una canna aperta ad una estremità (ruca) procedevano al lavoro per realizzare il cosiddetto filato. Dal batuffolo di lana grezza posto sull’estremità della ruca e con l’ausilio di un fuso di legno realizzavano un lungo filamento ritorto di lana che mano a mano veniva avvolto intorno al fuso stesso. Analoga operazione si eseguiva con l’ausilio di un secondo fuso. I due singoli filamenti venivano poi avvolti in un unico gomitolo, dopodiché si riutilizzava uno dei due fusi per ritorcere insieme i due filamenti. Il prodotto finale veniva avvolto avvalendosi dell’avambraccio, solitamente il sinistro, nella parte tra pollice ed indice e zona inferiore del gomito, formando una matassa (a seta), che al termine della lavorazione veniva lavata. Questo filato a due capi veniva impiegato per fare calze, biancheria intima, etc. Ove si dovevano realizzare opere di una certa consistenza e dimensione era necessario l’impiego di un filato di partenza di più grande diametro, si poteva con il procedimento descritto inserire un terzo filo, venivano create così: coperte, scialli, tappeti, solette (soete) per rivestire l’interno degli scarponi. Nell’ipotesi che le matasse di lana dovessero essere utilizzate per confezionare maglie di colore bianco uniforme, si procedeva alla sbiancatura. Si trattava di un procedimento empirico che consisteva nel porre il filato di lana in un grosso vaso di terracotta, detto concone (concon), lo stesso che veniva utilizzato per fare il bucato, sul fondo del quale veniva bruciato dello zolfo, che con i suoi fumi provvedeva a sbiancare le matasse o eventualmente un indumento di lana già confezionato. Sia le matasse che il capo in questione venivano posti sull’apertura del vaso ancora umidi per la preventiva lavatura. A lavoro compiuto, dalla matassa si realizzavano uno o più gomitoli che servivano per le future confezioni. Le sapienti mani delle donne campigliesi avvolgevano i gomitoli traendoli dalla matassa, facendosi di solito aiutare dai più giovani della famiglia, che dovevano tenere la matassa, con le due braccia allargate. I gomitoli che venivano avvolti, di solito presentavano due fori ai poli estremi, segni della presa delle due dita, pollice ed indice della mano sinistra, mentre la destra avvolgeva il filato con movimento rotatorio, il gomitolo alla fine risultava essere ovale, di notevole durezza a causa della tensione esercitata nell’avvolgere la lana. Un particolare e caratteristico prodotto realizzato manualmente ai ferri era il magliolo (maieo), maglia da indossare alla pelle, con maniche lunghe o mezze, girocollo con bordi rifiniti con fettuccia (curdela), con apertura sul davanti, provvista di due o tre bottoni (pomei) a mò di chiusura; indumento molto pesante, veniva portata dagli uomini durante le mezze stagioni e soprattutto d’inverno: nel periodo estivo si indossavano le canottiere sempre confezionate con la lana. Anche le mutande da uomo erano lunghe e rifinite sul fondo con la fettuccia. I contadini erano ormai avvezzi al notevole prurito causato alla pelle che una lana così grezza causava, però lì dentro si stava veramente al caldo. Lo scopo dell’impiego della lana era duplice: proteggere il corpo dall’umidità e dal freddo invernale e durante le dure fatiche nei campi assorbire le abbondanti sudorazioni. Un gran numero di uomini ed alcune campigliesi, data la modesta condizione economica generale, erano soliti camminare a piedi nudi (descausi); così scalzi, fin da piccoli, camminando si formava sotto la pianta del loro piede una spessa uniforme callosità che permetteva di procedere facilmente su terreno accidentato e sui sassi senza minimamente risentirne. Oggi sembra impossibile, ma così scalzi si camminava nei boschi anche durante la raccolta delle castagne, incuranti degli aculei dei ricci che già si trovavano a terra. Le calzature acquistate in città come gli zoccoli di legno o le scarpe di tela, erano le più usate, le donne più ingegnose erano solite guarnire con tela gli zoccoli grezzi acquistati o farsi, da sole scarpe di pezza per sé e per tutta la famiglia. Le scarpe erano considerate un genere di lusso, anche se necessario, venivano calzate solamente alla domenica e nelle grandi occasioni, realizzate in pelle tinta di nero, suola in cuoio, rigorosamente alte, sia per uomo che per donna, fornite di lunghe stringhe (strinche), soltanto poche paesane potevano concedersi anche scarpe basse stringate dotate di largo tacco. Per quelle dei lavoratori, venivano inchiodati sotto la suola dei chiodi particolari sporgenti, più di un centinaio per scarpa, alfine di ridurre al minimo il consumo della suola stessa. Con l’uso continuo i chiodi (brochete) che si consumavano, venivano rimpiazzati da altri nuovi; in paese esisteva l’artigiano esperto (scarpao) in questo tipo di calzature. Per una più lunga conservazione della tomaia, la stessa veniva spalmata con grasso di maiale (sunsa). Quando i Campigliesi scendevano verso la città per effettuare acquisti, portando sulle spalle legna da ardere o il barile (baiseo) di vino contenente 25 litri, mentre il contenitore di legno da 40 litri si chiamava barì, articoli che vendevano a clienti su prenotazione, procedevano scalzi lungo la mulattiera che si raccordava con la strada fino alla località Acquasanta, calzavano poi le scarpe che fino ad allora avevano portato appese al collo, legate tra loro con le stringhe. Dentro le scarpe, per colazione, ponevano le castagne bollite ancora con la buccia (baleti), o in base al periodo dell’anno, fichi (fighi) secchi avvolti in un pezzo di tela, generalmente a quadri bianchi e grigi (mandìlo da grupo), perché veniva annodato sugli spigoli a mò di contenitore. Allo scopo di difendersi dai raggi del sole i bambini e ragazzi portavano in testa un basco, gli uomini o un cappello a falda del tipo Borsalino o un tipo di basco con visiera (a bereta), sempre indossato durante la giornata nei campi; le contadine al lavoro usavano coprirsi il capo con un grande fazzoletto quadrato (mandìlo) piegato a triangolo, allacciato con due lembi di vertice dietro, sulla nuca. Nel periodo estivo per meglio proteggersi dal calore dei raggi del sole, interponevano tra la testa ed il fazzoletto delle foglie di vite o di fico. Molti degli uomini avevano ambedue i lobi delle orecchie bucati, fin dalla più tenera età, e portavano dei semplici orecchini (pendin). Gli uomini inoltre tenevano sempre la roncola (fausin) appesa alla cintola di cuoio (coresa), attraverso un ferro modellato a forma di U, attaccato alla parte posteriore della cintola stessa. A volte sovrapposta alla cintola portavano in vita una corda (soga) arrotolata, il cui scopo era quello di legare il carico di legna da trasportare sulle spalle, o semplicemente un grosso fascio di erba, tagliata per alimentare gli animali da cortile. Il contadino Campigliese, salve rarissime eccezioni, aveva il suo destino segnato fin dalla nascita: ogni giovane campigliese doveva diventare un buon vignaiolo, come il padre, e continuare la coltivazione della vite, che gli avrebbe permesso di sopravvivere dignitosamente per quell’epoca: se non aveva proprietà fondiarie o terreni da coltivare, ma ne conosceva l’arte, prestava a pagamento (giornadeo) la sua opera da altri viticoltori. Appena grandicello seguiva il genitore dal quale imparava a muoversi con disinvoltura nei terrazzamenti, nei boschi, alla marina; apprendeva l’arte di costruire i muretti a secco, arte molto difficile che richiede forza, occhio, ordine, equilibrio, fondamenti di idraulica, conoscenza di come i sassi, e in un muro a secco sono migliaia, vadano spaccati ed in quale ordine disposti. Il lavoratore dei campi doveva avere una buona forza fisica, ma soprattutto una grande resistenza alla fatica che tali aree obbligatoriamente imponevano, a causa anche della notevole acclività (fino al 70 %); per spostarsi ogni giorno nei terreni, il campigliese doveva scendere una lunga scalinata verso il mare, che al termine della giornata lavorativa, doveva essere ripercorsa a salire. Naturalmente mai nessuno scendeva o saliva quei luoghi senza caricare pesi sulle spalle: chi intendeva costruire in paese una casa, portava al ritorno dai campi almeno un grosso masso di arenaria, materiale molto comune in quel versante. Per impiantare un nuovo vigneto in un terrazzamento ancora da dissodare, era necessario fare un’operazione di bonifica (pastenae), scavare cioè nel campo più di una fossa o trincea, a seconda della larghezza del campo, dentro cui venivano gettate ramaglie di alberi di pino, fogliame ed altro: in questa fossa così costituita erano posizionate le nuove barbatelle a distanze prestabilite fra loro, il tutto poi ricoperto di terra; e così avanti a salire, sempre in profondità, circa ottanta centimetri, per mantenere l’umidità necessaria alla sopravvivenza della pianta. Questo faticoso lavoro manuale si eseguiva con piccone e pala o un piccolo cestino (corbela) di corteccia di castagno intrecciata, recante due manici, da usare in alternativa alla pala per trasferire la terra più a monte. Le piante di vite così messe a dimora crescevano e, nel corso degli anni producevano grappoli di uva di diverse varietà, le più diffuse erano: trebbiano, uva di bosco, vermentino, tenoese. Annualmente durante la vendemmia si sceglievano le migliori qualità di uve ed i più bei grappoli, per produrre il noto rinforzato (renforsà). Gli antichi erano soliti lasciare che la pianta si sviluppasse, diventando sempre più grossa, in diametro, e rigogliosa; la vite è una pianta secolare, se non attaccata da malattie specifiche o da parassiti dannosi continua la sua normale crescita. Il tronco che fuoriusciva dal terreno, senza nessun vincolo meccanico e libero di crescere a contatto con il terreno, rimaneva letteralmente sdraiato, in forza del suo peso. Dopo un’opportuna potatura e zappatura effettuata nei mesi da gennaio a marzo, i monconi restanti venivano ancorati su paletti di erica (sarvardin) conficcati nel terreno a distanza dallo stesso di centimetri 40. Nel mese di maggio terminata la fase di arresto della vita vegetativa, la pianta cominciava a germogliare facendo crescere e sviluppando vari nuovi tralci (boti). Normalmente venivano tolti quelli in eccesso lasciandone solo due (brochi) con lo scopo di far crescere e sviluppare lunghi tralci, che dopo la fioritura avrebbero generato i grappoli. Detti tralci, erano tenuti sollevati dal terreno per mezzo dei soliti paletti di erica stipa. I nuovi butti venivano fermati a questi supporti per mezzo di legature costituite da ginestre. A partire dagli anni ’20 anche le donne hanno iniziato a dedicarsi alla legatura, che richiede particolare perizia e manualità. Le ginestre usate provenivano da cespugli, in Liguria abbondano, preventivamente tagliati a zero nel mese di dicembre, permettendo alla pianta di far crescere nuovi virgulti che venivano tagliati, per la raccolta, nel mese di agosto e accuratamente selezionati in base alla lunghezza e utilizzati nei mesi da gennaio ad aprile. I materiali e quindi la tecnica per legare le vigne si sono sempre differenziati rispetto ad altre zone vicine della provincia. Altrove venivano e vengono tuttora usati i rami dei salici (sarso), la pianta di salice trovava sviluppo a Campiglia solamente nel versante affacciato sullo spezzino. L’arte di edificare il muro a secco, perché di arte trattasi, era propedeutica al mestiere di muratore di allora, almeno per quanto concerne la costruzione di edifici con muri perimetrali in pietra: bastava quindi impadronirsi della tecnica di legare con la malta i sassi ed un buon passo per iniziare il nuovo mestiere era realizzato, la buona volontà non mancava di certo. Esistono ancora oggi molti manufatti (casotti), ad uno o due piani, con tetto a due falde, copertura a capanna, o ad un solo spiovente, costruiti con un lato contro la roccia del monte o con il medesimo che sfrutta il preesistente alto muro a secco, i più piccoli di dimensioni solitamente si presentano con perimetro a forma quadrata con lato di quattro metri: alcuni realizzati con la tecnica di posa del sasso a secco, altri edificati con calce bianca spenta, impastata con terra del luogo. Rispetto al paese che giace a 400 metri di altitudine, queste costruzioni si trovano a livelli più bassi, in genere a quote dai 100 ai 250 metri, ed il loro scopo era quello di appoggio e riferimento per il lavoro nei campi più vicini al mare. Generalmente il manufatto, che bene si adatta all’andamento del terreno, era disposto su due piani, tutto realizzato in pietra arenaria. L’accesso recava nel relativo muro un architrave realizzato in sasso: la riquadratura, cioè gli stipiti della porta in ingresso erano costruiti con blocchi di arenaria scalpellinata a forma di parallelepipedo, la soglia di ingresso sempre in arenaria di fattura simile a quella dei “tacchi”. La copertura del tetto era in lastre di pietra (ciapon) anche di 5 centimetri di spessore, lo stesso tipo di pietra era anche per il pavimento, ma in assenza di lastricatura il calpestìo risultava essere il terreno livellato. Le lastre, a frattura predeterminata, venivano tratte da cave situate nei dintorni del paese, sul versante di La Spezia, i travi in legno per soffitti e solai erano di castagno locale. Al piano terreno generalmente vi era una piccola cantina o una stalla, in grado di accogliere una o due pecore; ad un livello di altezza intermedio vi era una specie di soppalco non abitabile (stredo), in esso venivano alloggiate le ceste, le paniere, gli attrezzi da lavoro, il fieno per le bestie, i tralci recisi delle viti (sarmente) ed altro; nel periodo della vendemmia veniva utilizzato per stendervi l’uva vendemmiata, posta a seccare per poi produrre il vino “rinforzato”. Al piano terreno nella parete contro monte, veniva ricavata tramite scavo manuale, una nicchia di dimensioni variabili (cambeoto), ove si metteva il vino, in fiaschi o bottiglie, per mantenerlo fresco. Sopra allo stredo, se il casotto era a due piani, vi era un tavolato calpestabile a mo di solaio (soao), il piano superiore così poteva essere abitato, vi si accedeva da un altro ingresso indipendente, realizzato in guisa di quello già descritto. Per usufruire dell’altro accesso si doveva salire sul terrazzamento a livello più alto, tramite una serie di gradini di pietra arenaria incastonati a sbalzo nel muro a secco perimetrale esterno. Il vano corrispondente al piano superiore comprendeva una stanza in cui erano disposte alcune sedie, altre povere cose, un tavolo ed un grosso giaciglio (saccon) su cui si coricava per riposare. Il saccon consisteva in un involucro esterno di tela, di tipo iuta, riempito di paglia di grano proveniente dalla battitura del frumento. Manufatti di più grande metratura e volume, sviluppati su due piani, erano adibiti per vere e proprie fisse dimore ove i contadini vivevano, nelle zone del Persico (Persego) e del Navone (Navon), cioè molto vicini al mare; si trattava di abitazioni con più stanze di piccola metratura, bassi soffitti, simili a quelle del borgo, dotate di piccole finestre incorniciate con pietra arenaria, cisterne per la raccolta dell’acqua piovana, caminetti, o luoghi ove si cucinava a legna, al piano terreno in area più fresca, le cantine o le stalle. Il vignaiolo che viveva in quelle zone tutto l’anno era avvantaggiato rispetto ai contadini del paese, avendo i vigneti e oliveti da coltivare più vicini alla residenza, ma aveva il problema della difficoltà di raggiungere il paese. Il vino prodotto, anche in grande quantità veniva in parte venduto: bisogna ricordare che in quei tempi il territorio era completamente coltivato, i terrazzamenti non erano così devastati o inghiottiti dalle frane come ai giorni nostri, si stendevano uniformemente su tutta la costa fino ad essere lambiti dal mare, fornendo un vino di grandissimo valore e pregio, soprattutto bianco ma anche nero, ricercatissimo su tutti i mercati, in special modo il “rinforzato”, tipo di vino passito di alta gradazione alcolica. Il periodo della vendemmia per il borgo era il momento di massima animazione; frotte di persone affollavano in una lunga teoria mobile la scalinata che conduce al mare, molti salivano con una grossa cesta (corba) in spalla, ricolma di uva appena vendemmiata, altri scendevano dopo aver scaricato l’uva nelle cantine in paese. Chi scendeva con la cesta vuota cedeva sempre il passo mettendosi ad un lato della scalinata, salutando; in più aveva sempre una parola di incoraggiamento e sprone per chi procedesse per l’erta china curvo sotto il peso del carico, questa usanza è ancora in voga ai giorni nostri. Ai tempi gli uomini solevano portare in spalla le particolari e caratteristiche ceste “da carbonini” (coffe), cioè grossi contenitori sempre realizzati con scorze di castagno intrecciate, di forma tronco piramidale, sormontate da 4 maniglie (maneghi) per la presa, tali grosse ceste venivano usate anche nel porto di La Spezia per essere riempite di carbone, che a spalla veniva scaricato a terra dalle navi a vapore che attraccavano nel nostro golfo. I portatori d’uva potevano essere i contadini stessi o persone provenienti dal porto mercantile o altri, ossia gente con fisici temprati dalla fatica, che il tipo di esercizio richiedeva: non è cosa agevole portare in spalla un carico di circa 50 chili, attraverso ripide scalinate e sentieri sconnessi, superando durante ogni singolo viaggio un dislivello medio totale di circa 300 metri, ammettendo che l’uva venisse caricata quasi a livello mare. Si consideri che le ceste venivano riempite dal contadino, in genere il produttore, che nella preparazione del carico, a volte con sottile furbizia, stivava nella cesta l’uva pressandola con forza aumentandone così il carico, il portatore interponeva tra cesta e spalla una vecchia giacca, di solito di fustagno, o un sacco di iuta per ammortizzare gli effetti degli spigoli della cesta sulle sue carni. Usando così a lungo ed intensivamente le spalle per portare pesi, si formavano su queste delle callosità, più pronunciate specialmente nella zona posta all’attaccatura del collo, ove si notavano dei veri e propri rigonfiamenti. Nei vigneti la vendemmia era affidata alle donne ed ai bambini, che sparsi nel terrazzamento tagliavano con forbici o coltellini ben affilati i grappoli dai tralci di vite, disponendoli in piccole ceste (corbele o corbelete) o paniere (panéa), quest’ultima risulta essere un tipo di cesta, da donna, con forma quadrata a sponde basse con soli due manici, in quanto la grossa cesta era difficoltosa da manovrare nel campo in mezzo alle varie piante di vigna: stava posizionata e veniva riempita, con vari travasi, in fondo al campo (a pe' de poso) su un muretto (posa) dal quale il portatore (camallo) la prelevava per effettuare il viaggio (viaio) procedendo poi verso la sommità della collina. Portare le ceste così ricolme è un’arte, bisogna essere avvezzi e usi alla fatica, possedere resistenza fisica, fiato, grande forza nella schiena e robuste gambe. Ai giorni d’oggi è cambiata la forma delle ceste (corbe), non sono più così alte: nella parte terminale sono più allargate, questa particolare forma terminale, sagomata verso l’esterno, è studiata per la presa con le due mani durante i viaggi con l’uva stivata, tale aspetto gli conferisce maggiore ergonomicità, inoltre hanno solo due manici che vengono utilizzati esclusivamente per il sollevamento, ed il conseguente trasferimento sulle spalle, al massimo carico il loro peso totale di solito non supera i 40 chilogrammi, ciò a significare che anticamente i vignaioli di Tramonti erano più forti e grandi faticatori. Nel procedere verso l’alto il portatore, per riposarsi, si fermava appoggiando la cesta su un muretto appositamente costruito (posa), lungo i tragitti ve ne sono molti. Durante la sosta era solito dialogare con altri simili che come lui rifiatavano, per riprendere le forze: è infatti problematico parlare mentre si è in cammino, il fiato è corto ed è meglio serbarlo per lo sforzo che si sta compiendo. Dopo pochi minuti riprendeva il cammino fino alla posa successiva, finché non arrivava a destinazione. Per completare una giornata lavorativa, il camallo doveva compiere il percorso dal mare per quattro volte, che si traduceva nell’aver trasportato circa 200 chili di prodotto dai campi alle cantine; a quote più alte i viaggi dovevano essere più numerosi, solo alcuni uomini di fibra eccezionale riuscivano a completare 6 viaggi, da basse quote, nello stesso arco di tempo, per questo venivano ricompensati in maniera più congrua. In aggiunta alla paga giornaliera, al portatore spettava il pranzo completo e vino a volontà, almeno un fiasco. I contadini che vinificavano nelle cantine in basso verso il mare erano certamente avvantaggiati, il trasporto delle uve era meno laborioso, in quanto i tragitti da percorrere erano quasi tutti in discesa o con minimi dislivelli da affrontare. Pure la donna contadina, se giovane ed in forze, era solita portare le uve dentro alla paniera, che di norma a pieno carico non pesava più di 20 chili, il peso veniva caricato sulla testa, disponendo un cercine di iuta (varco) interposto fra la testa e la cesta. Nel passato solo due donne di eccezionale forza, nella storia di Campiglia, sono state in grado di salire con corbe portate a spalla, colme, di grandi dimensioni, come usavano fare gli uomini. Il raccolto portato nelle cantine, veniva rovesciato dentro a grossi contenitori in legno di castagno, detti tini, alti anche più di 2 metri, a forma tronco conica, con la base che di solito era appoggiata su almeno tre grandi massi disposti con un angolo di 120 gradi tra loro, ben squadrati, di pietra arenaria. La sommità, fino ad allora lasciata aperta, di diametro più piccolo della base, veniva chiusa al termine della pigiatura usando delle assi in legno di forma particolare e sagomate, affiancate tra di loro in modo da permettere una perfetta chiusura del tino; solo i più grandi proprietari terrieri li possedevano, di grandi portate, fino a 80 Some (una Soma equivale a 80 litri). Al calar del sole terminata la vendemmia, ma non la giornata, il contadino si dedicava al lavoro di cantina (cantineo), procedendo alla pigiatura dell’uva stivata nel tino; la grande quantità di uva riversata nel tino, di solito lo riempiva quasi a raso, era schiacciata in modo completo ed efficace con un metodo che oggi ci fa sorridere: si denudava rimanendo in mutande o indossava un paio di calzoncini corti, saliva quindi sulla sommità del tino ed in posizione eretta sull’uva vendemmiata, iniziava a camminare sulla stessa. A causa del suo peso e del movimento alternativo delle gambe, poco alla volta affondava in quel misto di grappoli ed acini che mano a mano diventavano una poltiglia: marciava così imperterrito per ore, affondando sempre di più nell’elemento che lo avvolgeva e che ne aumentava lo sforzo fisico. A seconda della profondità del contenitore e dell’uva immessa, si poteva verificare la situazione che a pigiatura terminata il mosto lo ricoprisse fino alla gola; per accelerare la pigiatura, non era infrequente che più di un viticoltore si calasse dentro il tino, operando in maniera analoga. Terminata questa fase si procedeva al posizionamento della copertura, lasciando un orifizio necessario per lo sfiato dei gas di bollitura del mosto. Chi produceva vino in quantità minore, era solito possedere dei fusti, chiamate botti, disposte sdraiate, di forma affusolata, chiuse alle due estremità, che presentavano un’apertura di dimensioni modeste sulla parte più alta, al centro, in cui il mosto schiacciato con i piedi in altri e diversi contenitori (tinei), veniva rovesciato all’interno: una volta piena la botte si attendeva che anche in questo caso terminasse la bollitura. Gli antichi campigliesi vinificavano con una tecnica particolare, assolutamente naturale, rimasta immutata nei secoli, fino ai giorni nostri. Qualche piccola modifica è stata apportata, ma sostanzialmente il principio è rimasto lo stesso, metodi e tempi sono stati mantenuti. Al giorno d’oggi in Francia, paese con zone notoriamente dedite alla coltivazione della vite, alcuni produttori hanno ripreso le naturali ed antiche tecniche per vinificare, producendo modeste quantità di vino mettendo in pratica i metodi antichissimi. Da ciò ne è scaturito un prodotto di nicchia, ricercatissimo da intenditori e degustatori: è ovvio che il prezzo finale risulti adeguato, di alta fascia. Provate a chiedere oggi ad un enologo, le metodologie per vinificare, le attrezzature e gli ingredienti che vengono usati nelle supertecnologiche attuali cantine diventate simili a moderni ed asettici laboratori chimici. Il contadino campigliese terminata la pigiatura, allora rigorosamente con i piedi (oggi per lo scopo si usano macchine, sia manuali che motorizzate), riversava il mosto nelle botti con l’inclusione delle bucce ed il raspo, dato che questo particolare metodo non contemplava la diraspatura; con questa tecnica il vino si schiariva più velocemente ed in maniera naturale. La bollitura solitamente si prolungava per una decina di giorni: per intenderci la vera e prorompente bollitura era quella in grado di espellere il tappo. Terminato questo fenomeno fisico-chimico, i vasi o fusti, così comunemente detti tini e botti, venivano quindi sigillati con tappi di sughero in modo da non fare entrare aria all’interno. In precedenza, tutte le varie piccole fessure che le botti in legno potevano presentare, erano state rese stagne con spalmature a forza, di grasso di bue (sevo), preventivamente pestato con cura e mescolato con una piccola quantità di polvere di zolfo, per renderlo più morbido e plasmabile. Lo zolfo serviva solamente per rendere il grasso di animale meno appetibile per i piccoli topi (ratti) che solitamente giravano per le cantine. Tale pratica trova impiego anche ai giorni nostri. I fusti rimanevano così sigillati: questa particolare tecnica viene indicata come metodo “a botte chiusa”. Si proseguiva così fino a novembre ed esattamente al giorno 11, ove cade la ricorrenza di San Martino (Fin San Martin, leva e meta er vin). Da quel giorno, con il sopraggiungere della luna vecchia (luna vecia), si poteva procedere a travasare (mudae) il vino. Il travaso veniva effettuato in botti di legno più piccole o damigiane, in tali contenitori preventivamente preparati, veniva bruciato dello zolfo che partendo da quello in polvere acquistato in negozio, veniva fuso dal calore, posto in una pentola sul fuoco, con lo scopo finale di conservare nel tempo il vino. A questo punto venivano tagliate delle strisce di carta, lunghe 50 centimetri, di una particolare carta dei tempi (papeo matto), grezza, porosa, molto robusta. Ad una ad una le strisce di carta venivano immerse nello zolfo (sorfe) liquido, si impregnavano a fondo, dopodiché la carta così modificata (trappa de sorfe) veniva arrotolata su se stessa, e le veniva dato fuoco con un fiammifero (furminante o bricheto) tenendola legata ed appesa ad un pezzo di filo di ferro (filon). Veniva allo scopo introdotta nella botte, che era poi sigillata con un tappo di sughero, e lì lasciata bruciare a lungo in modo da saturarne l’ambiente. La stessa prassi veniva adottata con le damigiane (ramisane), contenitori in vetro da circa 54 litri di capienza, rivestite con vimini intrecciati (vesta). Pratica comune suggeriva di immettere prima nella damigiana qualche litro di vino, a scopo precauzionale, poiché durante la combustione poteva cadere sul fondo di vetro qualche goccia di zolfo incandescente che avrebbe potuto causare la rottura del contenitore. Alle damigiane riempite di vino, ad una ad una, veniva posto alla sommità dell’olio, per evitare ossidazioni. Riempite le botti o caratelli (caratei), le stesse venivano nuovamente sigillate con tappi di sughero. Il raspo (rappo) e quel che rimaneva delle bucce, dopo la totale spillatura del nuovo vino, veniva immesso in un torchio di costruzione artigianale dotato di pesante base in arenaria, madrevite verticale a volte in legno, più spesso in acciaio. L’accurata torchiatura che ne seguiva dava origine ad un prodotto che prende il nome di strizzo (strensaia), di qualità leggermente inferiore al vino spillato in precedenza. I produttori più poveri, recuperavano il prodotto solido della torchiatura, e lo rimettevano dentro ad una botte aggiungendo una proporzionale quantità di acqua. Mettevano nuovamente il tappo alla botte e lasciavano bollire il tutto. Dopo qualche tempo spillavano, ottenendo un vino molto leggero (vinetta), che veniva bevuto in famiglia, mentre quello di qualità migliore era posto sul mercato. Anche i produttori più ricchi usavano produrre questo tipo di vino a più bassa gradazione, procedevano però in maniera diversa: invece di torchiare il raspo, lo immettevano direttamente nella botte con aggiunta di acqua, spillando poi un prodotto che risultava superiore a quello ottenuto dal precedente metodo. Il vino uscito dalla spillatura dei tini, veniva chiamato “di botte” (vin de bote), con una gradazione alcolica oscillante dagli 11 ai 13 gradi a seconda delle annate. Questa qualità di vino era molto richiesta sul mercato, ma ancor di più i clienti desideravano il vino eccelso, e cioè il rinforzato che veniva prodotto sia bianco che nero. Il rinforzato (comunemente detto Sciacchetrà nella zona delle 5 Terre, area omogenea a quella di Tramonti, e con tale denominazione internazionalmente conosciuto) deriva da uve particolari, la maggiore scelta ricadeva su quella cosiddetta Bosco e sulla Trebbiana Nostrale che una volta vendemmiate, venivano lasciate essiccare al sole per almeno due settimane. Le uve erano ben stese sui tetti dei casotti o in alternativa sui muretti a piede del poggio, in caso di minaccia di pioggia venivano ricoverate all’interno dei casotti e poste sullo stredo. Con tale procedimento l’uva perdeva molta della parte acquosa a vantaggio di quella zuccherina, che poi si trasformava in alcool, quindi i grappoli venivano sgranati a mano, gli acini pigiati con i piedi ed il mosto travasato nelle botti di ridotte dimensioni data la limitata quantità prodotta. I più grandi vignaioli erano soliti produrne da 200 a 400 litri all’anno. I mesi da luglio a settembre, per il contadino erano periodi che non richiedevano tempi e cure particolari per le coltivazioni della vigna, per cui egli si dedicava a diverse altre attività, con lo scopo finale di integrare i propri guadagni. Prima di tutto, se era buon produttore di vino, lo vendeva a commercianti che provvedevano a ritirare il prezioso liquido trasportandolo via mare, dato che a quei tempi il paese non era ancora servito da strada carrozzabile. Tali commercianti affidavano il trasporto a barconi in legno (vinaccei) armati a vela che con mare calmo accostavano alla marina, purtroppo sfornita di attracchi adeguati. Il carico del vino veniva eseguito, tra notevoli difficoltà con barili (baisei), tipi di botticelle in legno contenenti il vino con un peso totale di 40 chili, trasportati a spalla dalle cantine attraverso ripide scalinate e sentieri. Accanto alla coltivazione della vite, seppur in misura minore, veniva condotta anche quella dell’olivo (oivo). In paese esistevano tre frantoi oleari, molto artigianali, a cui i contadini portavano il raccolto. Frangere significa letteralmente rompere, in questa fase la polpa ed i noccioli delle olive vengono lacerati a fondo attraverso l’energico trattamento eseguito con la macina. Le macine (masene) per frantumare le olive (oive) erano di forma cilindrica in pietra arenaria locale scalpellinata, con foro centrale a sezione quadra in cui venivano calettati gli assi, costruiti con legno di leccio (lissa) o di castagno. Anche la base era in pietra arenaria di forma circolare: per evitare la fuoriuscita della poltiglia, veniva creato tutt’attorno, un bordo rialzato, formato da pietre in arenaria sagomate a forma trapezoidale posizionate a coronamento, incastrate le une con le altre. Il prodotto così ottenuto veniva poi trasferito in un torchio formato da una base in arenaria, sempre di forma piana e circolare, con scanalatura a bassofondo, rialzata dal suolo per mezzo di blocchi del solito materiale, e da un asse verticale in legno, di solito di leccio o di olivo, calettato sul foro centrale della base, con la struttura a vite, con profilo triangolare, scolpita a mano. Tramite un accoppiamento meccanico mobile con madrevite, sempre realizzata con gli stessi materiali e costruita in due pezzi componibili a guscio, si effettuava la pressatura della poltiglia, traendone l’olio (eio): le operazioni erano eseguite con la sola forza delle braccia. Solo agli inizi del ‘900 le parti in legno furono sostituite da metallo, più resistente e durevole. Tutto il versante a mare, Tramonti, è ricchissimo di pietra arenaria, composto molto duro e resistente all’abrasione e di grande stabilità nel tempo, anche alle basse temperature. Molte città dell’Italia e della Francia, la utilizzavano per lastricare le strade ed i marciapiedi, era quindi molto richiesta sul mercato, ed in special modo grazie alla buona qualità, quella dei territori di Campiglia e di Biassa, ove erano state aperte molte cave da cui si traevano grandi quantità di pietra. Il contadino campigliese, sempre nel periodo estivo sopraddetto, si dedicava alla modellazione di blocchi della pietra (tacchi), usando con sapienza semplici attrezzi: per spaccare i grossi massi particolari cunei (punciotti), per modellare i manufatti passava quindi all’uso di scalpello sagomato a taglio (scarpeo) o a punta (agoccia). La pietra veniva tratta principalmente da una grande cava naturale in forte pendenza, zona Fosso del Checco, che partiva da quota molto alta e con forte acclività proseguiva fin sulla spiaggia. Il contadino, dall’alto selezionava i massi più utili e adatti per ricavare il prodotto finito; non essendoci nessun mezzo di trasporto per trasferirli alla marina, li faceva rotolare, facendoli franare lungo quella grande scarpata. Al termine del lavoro di squadratura uscivano dei blocchi del peso di circa quaranta chili, che venivano preparati in gran numero, accumulati sulla spiaggia in attesa del veliero, con vela latina, che li avrebbe caricati e quindi trasportati altrove. Quella grande catasta posta sulla battigia, in gergo prendeva il nome “a barcà”, costituiva l’intero carico per il veliero. E’ storia vera che prima dell’inizio dello scorso secolo, un contadino con il proprio figlio, appena ventenne, avessero preparato un carico di massi già squadrati e pronti all’imbarco; un giorno d’autunno, si alzò un forte vento che divenne talmente impetuoso che ancora oggi si ricorda che fece rintoccare le campane del campanile del paese, il mare cominciò ad ingrossare divenendo burrascoso, onde sempre crescenti si abbattevano sulla costa e sui massi, pazientemente lì accatastati: dalla sua abitazione che si affacciava sulla spiaggia, il padre vedeva le onde che minacciavano di portare via o di sparpagliare i blocchi già pronti, a causa della forte risacca provocata dai cavalloni, trascinandoli al largo ove era poi impossibile recuperarli dato l’alto fondale. I due si precipitarono sulla spiaggia con l’intento di mettere in salvo il loro lavoro, purtroppo un’onda più alta delle altre ghermì il figliolo, trascinandolo sott’acqua, sbattendolo con violenza contro i massi. Il corpo del poveretto non fu mai più ritrovato, l’unico resto poi recuperato fu uno scarpone a lui appartenuto. Avendo imparato già dall’età infantile la tecnica di spaccare i sassi, un certo numero di campigliesi, emigrarono in Francia allettati dal guadagno certo derivato dal lavoro in quel particolare settore, che al di là delle Alpi era molto ricercato, chiamando in seguito parenti e paesani; ne seguì un piccolo esodo verso quei luoghi, nella zona della Provenza e precisamente a La Ciotat, nei pressi della città di Marsiglia, ove i Canese e gli Sturlese fondarono una piccola comunità tutt’ora esistente. Qualcuno tentò di far fortuna, o perlomeno di uscire da quella vita fatta di duro lavoro e non sufficientemente remunerativa per tutti, imbarcandosi come mozzo su navi mercantili, altri più esperti e professionalmente più preparati, intrapresero la via del mare sottoponendosi alle selezioni per navigare su transatlantici in qualità di personale addetto ai servizi: cameriere o ragazzo di camera. Alle prime armi con le lingue estere, furono destinati su navi che facevano tragitti verso il Sud America, data la somiglianza della lingua italiana con quella spagnola: uno di loro, tale Sturlese, si stabilì a Valparaiso, in Cile, dopo averlo interamente attraversato; non si hanno notizie di paesani che navigarono con transatlantici o vapori su rotte del Nord America. Solcando i mari a quelle latitudini, si narra che uno di loro, al ritorno da un viaggio, portò con sé alcune piante di sughero che mise a dimora nella costa sovrastante la zona di Schiara. Agli inizi del 1900 un paesano, della stirpe dei Canese, emigrò in Sudamerica e precisamente nel Paraguay, ove ancora oggi esiste una piccola comunità di suoi discendenti assommante ad 80 anime, che portano quel cognome. Nel dopoguerra (anni ’50), dopo decine di anni di lavoro in Francia, qualche campigliese, pochissimi in verità, tornò al paese natìo, per godersi la meritata pensione, portando con sé una curiosa parlata (patois) fatta di francesismi, frammisti al nostro dialetto, che non aveva di certo dimenticato. Il compito del vignaiolo coinvolgeva anche altre discipline lavorative: per costruire i filari, che sostengono la vite, si usano pali di legno di castagno (forchete), per le proprietà intrinseche di durata nel tempo che questo legno presenta. Era quindi necessario che il contadino proprietario di boschi, tagliasse nel periodo opportuno giovani piante che gli servivano allo scopo. Le stesse venivano poi sapientemente trattate, per allungarne la durata, prima dell’utilizzo finale. Questa attività di taglio, sempre esercitata a mano, lo trasformava quindi in boscaiolo esperto di legni e periodi di abbattimento degli alberi, trattamento di questi e stagionatura: naturalmente la legna, meno nobile del castagno, veniva tagliata per essere poi bruciata nei caminetti domestici oppure preparata in cataste per eventuale vendita ad altri. Con gli alberi di castagno più grossi venivano realizzati travi per solai e particolari pezzi sagomati (doghe) usati per costruire le botti. Costruire le botti di qualsiasi forma e dimensione, sempre rigorosamente a mano, è un’arte sopraffina. A Campiglia vi era un maestro (maistro) capostipite, famoso in tutta l’area di Tramonti che ha allevato sul campo il figlio, che a sua volta ha tramandato il mestiere al proprio figlio, creando una catena di artigiani del settore, perpetuatasi per tre generazioni. Il bottaio con i suoi ferri del mestiere necessari girava, da primavera al periodo di vendemmia, per tutte le cantine: i clienti gli fornivano doghe ed i vari cerchi di acciaio adatti per realizzare i fusti delle dimensioni richieste. Egli, partendo dalle doghe in castagno, appena sbozzate, con la sua straordinaria manualità costruiva direttamente dentro le cantine le varie botti e tini anche di grosse dimensioni, capaci di contenere diverse migliaia di litri di vino. Riesce difficile oggi pensare che il bottaio di Campiglia, con pochissimi, ma essenziali attrezzi, riuscisse a realizzare botti al di fuori del suo comodo ed attrezzato laboratorio di falegname. Egli si trasferiva a piedi, con la cassa contenente gli arnesi che in sostanza consistevano in: pialla (ciona), pialletto (cioneto), pialletto mezzotondo (barcheta), sponderuola (spondaea), vari scalpelli (scarpei), anche di sagoma mezza tonda (ungeta), ascia da carpentiere (sgorbia), mazzuoli (massei) di legno, graffietto per tracciare (truschin). In paese non esisteva un acquedotto per l’acqua potabile, non esistevano i servizi igienici all’interno dell' abitazione, normalmente negli orti vicino alla casa venivano costruite delle cabine realizzate con tavole di legno o paglia (stuppio, così era chiamato il gambo del grano), provviste di copertura per la pioggia. Tali manufatti servivano per i bisogni corporali. Le famiglie più agiate potevano contare, installato nella camera da letto, in un piccolo mobile (grindon) che conteneva un vaso di terracotta smaltata, usato per lo scopo. Veniva poi successivamente svuotato. Non tutti i fabbricati erano dotati di cisterna (susterna) grosso manufatto a tenuta stagna, per la raccolta dell’acqua piovana dal tetto, che si utilizzava anche per le faccende domestiche. Per lavare i panni sporchi molte donne si recavano, soprattutto d’inverno, nei boschi vicini all’abitato, ove si formavano dei piccoli rigagnoli o ristagni d’acqua, a causa delle piogge, risparmiando così l’acqua delle cisterne. Se la piovosità era scarsa e la famiglia numerosa, l’acqua nella bella stagione poteva non bastare e quindi le donne di famiglia per lavare panni e lenzuola dovevano recarsi laggiù al mare (maìna), nella località Persico, ove sgorgava copiosa una sorgente d’acqua dolce. Al mattino presto caricati tutti i panni (drapi) da lavare in una grossa cesta, bambini al seguito, scendeva fin laggiù sulla spiaggia e procedeva al lavaggio delle lenzuola (bugà), che venivano poi stese sulle rocce ad asciugare al sole. Per il bucato veniva usata la cenere. Se i bambini non erano ancora in grado di nuotare o di galleggiare, la madre provvedeva a legarli con una corda sotto le ascelle e li calava in mare, tenendo in mano l’altro capo della fune; il bimbo o la bimba cominciavano così a prendere familiarità con l’elemento ed in caso di pericolo venivano subito tirati a riva. Con questo metodo molti hanno imparato a stare a galla, a familiarizzare con l’acqua, divenendo in seguito dei provetti nuotatori ed apneisti come normalmente tutti i campigliesi sono sempre stati. Passata la prima paura, i bimbi dovevano imparare a nuotare, era un vero divertimento e una sfida: per loro il modo di dimostrare a sé stessi e agli altri, che avevano imparato bene, era quello di arrivare a sedersi su uno scoglio, non molto distante da riva, ove il fondale tocca i 2 metri. Tale scoglio è chiamato, data la sua forma affiorante sull’acqua, Scoglio dell’Asino (Scoio dell’Ase): chi avesse cavalcato quell’Asino sicuramente non era alle prime armi: vi sono inoltre nella zona del Persico e del Navone altri grossi scogli di forme diverse, e tutti hanno il loro nome o nomignolo, derivante dalla loro sagoma, appioppato dai campigliesi da lustri. Il contadino era anche molto esperto nell’arte della pesca, nei momenti di lavoro nell’area della marina, integrava il tempo dedicato allo spaccare i sassi, con la pesca soprattutto al polpo, molto comune in quelle zone. Anche le contadine erano solite pescare i polpi (porpi) con una tecnica curiosa. Dato il gran numero di esemplari presenti alla marina, era sufficiente che la donna si sedesse su uno scoglio e lasciasse le sue gambe immerse nell’acqua. A causa del bianco colore delle gambe i polpi erano attratti e si attorcigliavano a queste ritenendo che fossero una preda. Con estrema velocità le contadine, con le mani afferravano i polpi catturandoli. Il campigliese usava tecnica diversa: in riva al mare, lungo la spiaggia (ciasa) costituita da grossa ghiaia (giaon), preparava una specie di vasca (bozo) delimitata con sassi, in cui immetteva del cibo appetibile (brumeso) per il polpo: l’attesa non era vana, di solito dopo poco si presentava una preda, anche di grosse dimensioni. Così il campigliese, pronto e attento con la sua fiocina (fussena), la scagliava con velocità e precisione catturando il mollusco, e così di seguito: se aveva fortuna si poteva verificare che il polpo che sopraggiungeva, fosse seguito da una murena, che notoriamente gli dà la caccia ed è ghiotta delle sue carni. Egli, con la sua perizia, poteva così catturare facilmente due prede in una sola volta.
Dialetto
I campigliesi per esprimersi tra loro, comunemente usavano il dialetto, tipo di linguaggio molto simile a quello spezzino, nonostante i parecchi vocaboli che differivano da quello del capoluogo, però si intendevano a meraviglia. Il dialetto campigliese differiva, non sostanzialmente, da quello in uso nella vicina Biassa, che “musicalmente” si presenta all’orecchio dell’ascoltatore molto “cantilenante” e con diversa accentatura e pronuncia delle consonanti; differenza infine più marcata con il linguaggio vernacolare parlato nella confinante Portovenere. Alcuni termini o espressioni dialettali campigliesi riflettono espressioni od assonanze comunemente usate in Francia, Spagna, ecc, segno evidente del travaso nei tempi. Nella comune parlata dialettale i paesani rivolgendosi alle persone anziane, usavano il “Voi”, in segno di deferenza; stesso trattamento per le persone sconosciute: per le ultime, al contrario, se il paesano si fosse trovato al di fuori del territorio di Campiglia, il dialogo si svolgeva in italiano. I figli usavano dare del Voi ai genitori, dove il padre (pae) e madre (mae) venivano rispettivamente chiamati pà e mà, anche durante il dialogo con loro, così, semplicemente, senza usare nomi di battesimo. E’ da rimarcare una particolarità: nella conversazione con forestieri (foestri), cioè sconosciuti, che casualmente incontravano intorno a Campiglia, in caso di dialogo, prima di eventuali presentazioni, abitualmente si rivolgevano loro con l’appellativo di “o bel’omo”, “ o bela dona”, in funzione che si trattasse di uomo o di donna, perlomeno di mezza età. Una volta perfezionata la conoscenza si passava automaticamente al Voi, dialogando in dialetto o in italiano, atteso che gli interlocutori avessero o meno familiarità con il vernacolo campigliese.
Fonte: CAMPIGLIA.NET Campiglia.net